I tanti «invisibili» sulla rotta balcanica

«L’Europa ha deciso di esternalizzare i confini e i campi e noi volontari abbiamo risposto esternalizzando la solidarietà, un’accoglienza diversa, per fare da presidio, perché altrimenti queste persone restano invisibili e la realtà non viene raccontata». Con queste parole Diego Saccora ha spiegato il significato del suo lavoro in Bosnia, dove passa la rotta balcanica, utilizzata dai migranti per avere accesso all’Unione Europea. Insieme ad Anna Clementi, Saccora è stato mercoledì scorso al Centro Famiglia di Nazareth, in un incontro organizzato dall’Ufficio missionario con Caritas diocesana, per presentare il loro libro «Lungo la rotta balcanica: viaggio nella storia dell’umanità del nostro tempo» e raccontare una realtà troppo spesso nascosta. «La rotta balcanica è stata aperta nell’agosto 2015 – ha raccontato Clementi – e in settembre l’Unione Europea forma una sorta di corridoio umanitario verso il cuore dell’Europa. Le persone una volta arrivate in Grecia, vengono spostate in autobus nel nord del paese, e da lì a piedi lungo una rotta legalizzata, anche se fortemente militarizzata. La rotta diventa un passaggio legalizzato che in 15 giorni consente di arrivare dalla Turchia alla Germania con 200 euro e coinvolge 1 milione di persone. A marzo 2016 c’è l’accordo tra Unione Europea e Turchia, che in cambio di fondi controlla gli accessi: è da quel momento che le persone restano bloccate, per lo più nel nord della Grecia, nel campo di Idomeni, simbolo del fallimento dell’accoglienza. Il campo di Idomeni viene sgomberato nel maggio 2016, ma la politica europea continua ad esprimersi con la costruzione di campi in ex fabbriche e in edifici abbandonati in cui si marginalizzano le persone». «Il 2016 – prosegue Saccora – è l’anno della Serbia e Belgrado diventa una nuova Idomeni. Vengono creati 18 campi governativi, divisi per tipologie e finanziati dall’Europa, che di fatto esternalizza l’accoglienza. Le persone accettano tutto questo perché sperano nelle liste, dalle quali si dovrebbe accedere ad un campo nella transit zone tra il confine serbo e quello ungherese, per ottenere domanda di asilo. In realtà in questi campi gestiti da trafficanti vengono solo valutati i requisiti della domanda e quando le persone capiscono che le liste sono un inganno, cercano la fuga. La rotta devia verso la Croazia, visto che l’Ungheria è inaccessibile, ma anche lì l’accesso è negato e le persone sono costrette a tornare indietro, formando le cosiddette jungle, cioè accampamenti con persone non registrate». Dopo aver raccontato come i migranti arrivano in Grecia via terra e via mare, la Clementi ha riportato spiegato una delle tante contraddizioni della vicenda: «In Grecia c’è il diritto di asilo e di lavorare, ma di fatto le persone non riescono a chiedere asilo né a lavorare perché i campi dove si trovano non concedono i documenti necessari. Con l’accordo tra Unione Europea e Turchia si sancisce che le persone non possono lasciare le isole greche fino a quando le domande non vengono ritenute ammissibili e ci sono persone che restano bloccate anche per 6 mesi o un anno». Infine la situazione in Bosnia, dove il passaggio della rotta balcanica ha creato nuove scintille in un paese già complesso a livello politico e sociale: «Il sindaco di Bihac, la città dove vivo, – ha raccontato Saccora – è l’unico a prendersi carico della gestione dei migranti. In un edificio nato per essere la casa dello studente e mai completato a causa della guerra civile, arrivano ad esserci 1500 persone: è sempre la stessa storia, le persone vengono costrette nella stessa area in stato cattività, dormono in tende, sono servite da volontari, e non gli viene concesso asilo, e per questo sono costretti ad affidarsi ai trafficanti. Da anni si parla di accoglienza diffusa, invece si continua ad esternalizzare campi da 2500 persone l’uno.

La Bosnia non può essere lasciata da sola, esattamente come l’Italia e come nessun altro paese. È importante conoscere e agire, per dimostrare che i cittadini europei possono essere anche solidali, per fare resistenza sul campo e far sì che nessuno venga dimenticato».
Luca Beltrami

Articolo uscito su Nostro Tempo del 3 marzo 2019

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