Domenica delle Palme – commento di p. Dario Bossi

Nelle regioni remote del Brasile il cavallo appartiene solo ai fazendeiros, oppure ai loro funzionari, i vaqueiros; serve per correre, per spaziare nelle grandi tenute di terra, che spesso è una terra occupata illegalmente, oppure strappata alla foresta per permettere i grandi allevamenti di bestiame. Invece, l’asino è una cavalcatura più comune per la gente povera, la gente semplice. L’asino va più piano, è pacifico, è più resistente, si fa carico dei pesi, proprio come la gente comune. Nella cultura romana, che poi è ripresa naturalmente a Gerusalemme, il cavallo è il simbolo della guerra, ed è tipica l’entrata trionfale a cavallo dell’imperatore e del suo esercito nella città, per celebrare la disfatta dei nemici, al punto che questo brano del profeta Zaccaria, che Gesù recupera con il gesto dell’entrata a Gerusalemme, era stato omesso, un po’ lasciato alla periferia delle pagine bibliche, perché non era accondiscendente l’immagine di un re mite, di un re che entra a dorso d’asino, e peggio ancora, Zaccaria nel capitolo 9 continuava dicendo così: “farà sparire il carro da guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni”. No, definitivamente non conviene un re così, è meglio ometterlo e restare con la nostra idea di Dio, un Dio che benedice e protegge il re. Potere e ricchezza sono sempre stati segni della benedizione di Dio, non si osi contraddirli, non conviene. La folla, infatti, applaude l’entrata di Gesù a Gerusalemme, e gli si sottomette anche, stende i suoi mantelli ai piedi di Gesù e dell’asino che passa. Saranno alla fine gli stessi che lo condanneranno a morte, con l’effetto del branco, che condensa in sé rabbia, delusione e odio.

È quasi automatico associare il potere a Dio. Oggi avviene in diverse parti del mondo. Osserviamo come il potere, economico e politico, spesso va alla ricerca della religione, dei suoi simboli, dei suoi leaders, della sua benedizione. Infatti, la maniera migliore per giustificare una guerra è dichiararla santa. E oggi, sempre di più, la politica e il modello economico stanno dichiarando guerra ai poveri. Tutti i movimenti in cui Gesù si abbassa e chiede al potere di abbassarsi sono come bestemmie, come eresie da esorcizzare. Allora ci chiediamo qual è il rapporto tra la fede e il potere? Noi siamo la Chiesa degli “Osanna!” o la Chiesa dell’asinello?

Vorrei dare oggi la parola a Padre Lele Ramin, missionario comboniano italiano ucciso nel 1985 a Cacoal, in Rondônia, nell’Amazzonia brasiliana, perché stava dalla parte delle famiglie senza terra e dei popoli indigeni. Nel venerdì santo dell’85, pochi mesi prima di essere ucciso, Ezechiele commentava così il Vangelo, diceva: “Fermiamoci un poco, perché stiamo davanti a un uomo che sta morendo. La morte di Cristo è stata conseguenza della sua vita, contraddittoria per noi, fino alla fine. Guardate fratelli, guardate i ladroni crocifissi con Cristo, per vedere l’altra realtà. In Roma si crocifiggono ladroni per aver rubato poca cosa, ma nello stesso giorno si porta in trionfo un dittatore che con l’esercito e le legioni ha spogliato e derubato la terra degli altri popoli. Chi ruba terre è onorato latifondista, proprietario, commerciante; chi ruba un pezzetto di terra per sopravvivere è ladrone. Mentre questi sottrae un palmo di suolo e resta soggetto a vivere in continuo rischio e pericolo di morte, i grandi rubano senza timore e senza pericolo. Se i poveri rubano sono impiccati, ma se sono i ricchi a rubare… essi rubano e impiccano. Il grande poliziotto uccide i ladroni per avere la libertà di poter rubare da solo”. Sono le parole di un uomo che, pochi mesi dopo, ha lasciato la vita per questa gente. Allora, all’inizio della Settimana Santa il Vangelo ci pone una domanda rimbombante: da che parte stiamo? Con la violenza imperiale o con la nonviolenza della croce? Dalla parte delle vittime o dalla parte dei mandanti?