Pregando e meditando in tempi di coronavirus – Alberto Degan

Il potere dell’amore

La liturgia della V domenica di Quaresima ci propone la resurrezione di Lazzaro. E’ un brano molto lungo e molto ricco. Io adesso voglio sottolineare solo un aspetto.

Colui che ami è malato” (Gv 11,3), mandano a dire a Gesú Marta e Maria: vogliono che Gesú sappia che il loro fratello Lazzaro sta male e ha bisogno del suo conforto. Credo che non esista una definizione piú vera e piú bella dell’essere umano, piú che mai vera in questa emergenza di coronavirus. Noi siamo malati, incompiuti, spesso prigionieri di paure e di ferite, ma siamo amati: Gesú ci ama, e non si rassegna a vederci rinchiusi nella tomba della paura, della rassegnazione e della morte. Gesú “scoppia in pianto” di fronte alla dipartita del suo amico e di fronte al dolore che questa morte provoca nei suoi familiari. Vedi come lo amava!”, dicono i Giudei di fronte alle lacrime del Nazzareno (Gv 11,36). Questo, dunque, è il principale messaggio del Vangelo di questa domenica: Gesú ama l’umanitá – questa umanitá che soffre, si ammala e muore – e non ci lascia soli.

Gesù scoppiò in pianto” (Gv 11,35). Questo pianto è proprio di Dio, un Dio che così umano nessun uomo riesce ad esserlo. In effetti, anche Maria e i giudei piangono per Lazzaro. Ma mentre per loro l’evangelista usa il termine greco claio, che propiamente significa ‘lamentarsi’, per Gesú – e solo per lui – usa il termine dacrüo, che indica un pianto a dirotto. Insomma, Gesú piange piú forte di tutti, sente piú di tutti il dramma di un’umanitá che non riesce ad uscire dalla tomba. Dunque, la Passione – il sentirsi direttamente coinvolto nel dolore provocato dalla morte e nella lotta contro la morte – è il modo di essere di Gesù che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Gesù ama appassionatamente l’umanitá e cerca di coinvolgerci in questo amore: “Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato!”, esclama (11,11), invitandoci a solidarizzare con il nostro amico malato. Condividere le fatiche e le speranze, le potenzialitá e le fragilitá, i timori e i sogni dei suoi amici: in questo trova la sua pienezza la divina umanitá di Gesú. E il Nazzareno vuole donare anche a noi questa pienezza: “Non vi chiamo più servi… ma… amici” (Gv 15,15). E ci indica la strada maestra della Bellezza: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

La storia dell’uomo è piena di questo amore. Dio ci ha dato la capacitá di saper piangere e lottare per la vita dei nostri fratelli. Non c’è forza più potente di questo amore! Questa capacità di prenderci a cuore la sorte dei nostri amici ha compiuto e continua a compiere piccoli grandi miracoli. La testimonianza di tanti medici e infermieri italiani che rischiano e danno la loro vita per i malati di Covid 19, ci conferma que questa forza è all’opera anche oggi. Chiediamo a Dio la grazia di poter dare anche noi un piccolo contributo perché questo amore continui ad essere attivamente presente nella storia dell’uomo.

Lazzaro, vieni fuori!” (11,43), grida Gesú al suo amico, e “il morto uscí” (11,44). E’ proprio vero: la parola di un amico ci fa risorgere. Anche la nostra parola, quando è pronunciata con amore sincero, ha il potere di dare vita e di far rinascere. Soprattutto in questo periodo di coronavirus, la voce di un amico che mi chiama, una sua parola di affetto e di incoraggiamento ha il potere di ridarmi forza e speranza, e di farmi uscire dal sepolcro della tristezza e della paura. Questa crisi ci invita a riscoprire la forza e il potere di una parola d’amore.

Il grido di Lucia

In questi giorni di quarantena forzata mi alzo come sempre alla 5.15, e seguo il mio ritmo normale di preghiera personale e preghiera comunitaria. Poi, mezz’ora al giorno, mi dedico alla lettura o all’ascolto di musica. Cosí, pochi giorni fa, ho potuto riascoltare il grido di Lucia, uno straordinario personaggio della Musica Lirica italiana. “Egli è luce ai giorni miei, è conforto al mio penar!”, esclama Lucia di Lammermoor, che si ostina a credere nell’amore in un mondo asservito agli idoli della violenza e del potere. Assetata di luce, Lucia si intestardisce a ricercare la bellezza in un mondo dominato dalla disumanitá e dalla ragion di Stato. Alla fine, incapace di convivere con la mediocritá, la menzogna e l’ingiustizia, Lucia impazzisce. Nella scena della pazzia, nel III atto, c’é un famoso duetto col flauto: la voce di Lucia insegue quella del flauto alla ricerca di quella luce e di quella bellezza che sembra non aver diritto di cittadinanza in una societá governata dalla ‘realpolitik’.

L’unico modo in cui questa luce può aprirsi un varco in questo mondo è attraverso un acuto, un grido che con la sua abbagliante bellezza ci penetra il cuore e lo risveglia dall’assopimento in cui era caduto. Nel famoso sestetto del II atto – il piú bel sestetto di tutta la storia dell’Opera Lirica – Lucia emerge come una grande profetessa di bellezza: alla fine, su tutti i propositi violenti e sulle amare rivendicazioni degli altri personaggi, domina e trionfa l’acuto splendido e struggente di questa donna: un grido, un messaggio di luce che spera di arrivare almeno ai cuori più sensibili. E difatti il coro ripete: “Chi per lei non è commosso ha di tigre in petto il cor”.

E’ una Bellezza che tocca anche i cuori violenti. Edgardo, ancor pieno di rancore, si sente suo malgrado commosso e ‘vinto’ da questa Bellezza, e rinuncia alla vendetta. Quanto a Enrico, finalmente si lascia attraversare da un fremito di pentimento e di rimorso per i suoi inganni. Dobbiamo lottare perché questa Bellezza abbia pieno diritto di cittadinanza nel nostro secolo.

Morire di coronavirus o di fame?

In Colombia ci sono ormai quasi 700 contagiati del coronavirus e almeno 10 morti. Da una settimana siamo in quarantena totale, una quarantena che accentua in maniera ancora piú pesante le enormi differenze sociali. Perché qui a Bogotá molta gente si guadagna da vivere con piccoli banchetti di strada: vendono caffè – o succhi naturali di arancia e di mango – alla gente che passa. Con questo lavoro, tanti uomini e tante donne riescono almeno ad assicurare un pasto ai propri figli. Adesso che sono tutti in quarantena e la gente non esce piú se non per andare in farmacia e ai supermercati, tutte queste persone sono disperate: letteralmente, non sono piú in grado di garantire il pane quotidiano ai propri figli.

Per questo martedí scorso si é riunita in Plaza Bolivar una folla fatta di venditori ambulanti e informali, artisti di strada, anziani, prostitute, riciclatori e senza-tetto, chiedendo alle autoritá di preoccuparsi per loro. Chiaramente, la diffusione del virus non potrá essere frenata se il Governo non mette in atto un piano di assistenza per tutti questi lavoratori. Il Comune aveva previsto la distribuzione di pasti gratuiti per le categorie piú vulnerabili, ma il numero di pasti preparati era del tutto insufficiente. La veritá è che lo Stato non conosce il numero esatto di questi lavoratori informali, perché finora non considerava suo compito saperlo. L’emergenza del coronavirus, adesso, smaschera l’ ‘ignoranza’ dello Stato e lo obbliga a cambiare atteggiamento: la crisi non potrá essere superata se il Governo non si preoccuperá di conoscere la situazione di queste persone ‘vulnerabili’ e se non preparerá un piano per aiutarle.

Molti dei lavoratori informali – e tra questi tanti immigrati venezuelani – non hanno una casa, e vivono nei cosiddetti ‘pagadiarios’, stanzette che tu paghi ogni giorno, 20.000 pesos al giorno. Molti di questi inquilini ‘pagadiarios’ sono stati buttati fuori dalla loro stanza, perché adesso che non possono piú lavorare non sono in grado di pagare l’affitto.

Insomma, di fronte alla quarantena non siamo tutti uguali: non è la stessa cosa rimanere chiusi in una grande casa di religiosi e rimanere chiusi in una baracca di una favela, o rimanere chiusi in una stanza ‘pagadiarios’ col rischio che domani ti buttino in strada. E’ vero, tutti soffriamo una situazione di fragilitá, ma alcuni si trovano in una situazione oggettivamente molto piú fragile.

Con Liam, uno dei nipoti della signora Olivia. La foto è stata scattata il 14 marzo, l’ultimo giorno che sono potuto andare a Puerta al Llano, prima che iniziasse la quarantena.

Noi da poche settimane avevamo dato vita ad un’iniziativa di solidarietá: raccogliere alimenti tra i vicini di casa per poi darli ai poveri del quartiere. Alcuni poveri, in questi giorni, stanno bussando alla nostra porta e noi offriamo quello che abbiamo raccolto. Anche alcune famiglie afro dei quartieri dove facciamo apostolato ci hanno chiesto aiuto. Noi cerchiamo di aiutarli, ma con la consapevolezza che quello che possiamo fare è sempre molto poco. Ieri mi ha chiamato la signora Olivia, quella che mi appoggia mel mio apostolato nel barrio “Puerta al Llano”, e mi ha detto: “Non possiamo uscire, i miei figli non possono andare in strada come venditori ambulanti: ce lo impediscono, ci dicono, per proteggerci, perché non prendiamo il virus. Ma cosí non possiamo lavorare, e non abbiamo niente da mangiare, né noi né i bambini. Per non morire di coronavirus ci fanno morire di fame: ma per noi che differenza fa?”

Per telefono sono in contatto anche con alcuni amici dell’Ecuador, dove ci sono giá 1.700 contagiati e piú di 40 morti. Qualche giorno fa ho chiamato Carlitos, un giovane di Guayaquil, per fargli gli auguri di compleanno. Carlitos participava al nostro gruppo di adolescenti del barrio Esmeraldas Chiquita. Adesso ha 25 anni, ed è papá di quattro bambini. Fino a qualche giorno fa si guadagnava da vivere conducendo una moto-taxi, ma ora, con la quarantena, non puó piú lavorare. Quello che guadagnava ogni giorno era appena sufficiente per comprare la ‘comida’ per i figli; adesso non sa come potrá tirare avanti.

Preghiamo perché questa emergenza converta i nostri cuori alla solidarietá e spinga i governi ad intraprendere finalmente politiche di giustizia e di equitá!

Un grande abbraccio fraterno!

fratel Alberto