ORECCHIE TESE

ridotte01Non ho imparato tutto quello che c’è da sapere sulla guerra in Siria. A malapena ho scoperto dov’è il Libano.
Non ho sfamato un intero campo profughi con container di aiuti umanitari. Non sono nemmeno riuscita a cucinare a causa dell’abbondanza di inviti improvvisati a colazione/pranzo/cena.
Non ho salvato migliaia di bambini distribuendo vaccini o medicine. Mi sono seduta con loro in sala d’attesa.
Non ho insegnato a leggere o a scrivere (avrei dovuto studiare un po’ di più l’arabo, prima). Ci ho provato con l’inglese, ma sono uscita dalla prima lezione accovacciata e starnazzante come una gallina, coi bambini dietro che mi seguivano da bravi pulcini.
E allora, cosa sono andata a fare? A fare niente. Perché prima di tutto ho dovuto liberarmi dall’ansia da prestazione, dalla pretesa di dover e poter fare qualcosa per gli altri. Bastava esserci. Ma con le orecchie tese.
Così anche se non conoscevo e non conosco tutte le fazioni, gli equilibri e gli squilibrati che trascinano il conflitto in Siria, ho ascoltato i racconti degli abitanti del campo. La loro vita crollata sotto le bombe e ricostruita a pezzi tra il Libano, l’Iraq, la Giordania, la Norvegia, e persino il Canada. Famiglie sparse in attesa di ricomporre il puzzle, orizzonte peraltro piuttosto lontano.
Ho ascoltato seduta nelle loro tende, in attesa che fossero loro a prepararmi il pranzo, oppure mentre provavo anch’io a dar loro una mano (almeno a cucinare), mentre mangiavamo insieme, o subito dopo, davanti a un’immancabile tazza di tè. Ho ascoltato i loro ricordi, le loro ricette, la loro nuova quotidianità, le notizie che arrivavano dai parenti ancora in Siria e da quelli sparsi per il mondo. Ho ascoltato la vita che faticosamente torna a scorrere.
Ho ascoltato mentre accompagnavo alle visite in ospedale, in clinica, o mentre viaggiavamo alla ricerca dei finanziamenti per cure che in Libano sono tutte a pagamento, e che i profughi siriani non possono permettersi. Ho ascoltato anche il loro silenzio preoccupato, rassegnato, o semplicemente stanco.
Ho ascoltato i bambini che ci cercavano fedelmente al mattino e a ogni nostro ritorno, insieme ci siamo insegnati qualche canzone e danza, insieme abbiamo cantato e ballato. Poi per fortuna sono riusciti a farmi stare zitta, così ascoltavo loro che giocavano con le nuove filastrocche, e pian piano ritrovavano anche le parole sepolte dei loro giochi.
img-20160801-wa0002Ho ascoltato così tanto che mi è venuto mal di testa, e solo per questo di arabo ne ho imparato troppo poco… Ma almeno così ho potuto ascoltare di più e scoprire nuovi modi di comunicare. Ho imparato che non importa per forza capire tutto, sapere tutto. Importa ascoltare. E ascoltando ho respirato a pieni polmoni. Ho respirato un ingombrante spessore umano. Così ingombrante, che adesso mi tocca ascoltarlo anche qui, perché ogni tanto salta fuori. Resto a orecchie tese. Almeno ci provo. Perché se avessi viaggiato tanto e ascoltato tanto, ma poi fossi tornata alla solita musica, sarebbe stato un viaggio decisamente stonato. Anche se forse non l’avrei mai saputo, non sapendo ascoltare.
Valeria Benatti