nonostante siamo già qua da ormai tre settimane, ci sembra di essere arrivate ieri, pur essendo consce che questo tempo è in realtà volato.
Siamo in Brasile, a San Paolo, e sì, viviamo in una favela. Una favela può essere composta da case costruite con cartoni, ma anche da case in muratura, come la nostra. Quello che rende un quartiere una favela, è il grado di insicurezza in cui vivono le persone. Forse noi non viviamo qui ancora da troppo tempo per poter descrivere in maniera oggettiva la realtà in cui siamo capitate. Questo primo impatto deriva solamente da quello che ci è stato permesso di vedere da fuori e da dentro.
Da fuori, vediamo case costruite in maniera disordinata, senza nessuna regola ingegneristica o igienica. Una suora ci spiega
che questi territori periferici sono stati “conquistati” e quindi occupati dalle stesse persone che, con il loro sacco di mattoni, hanno messo in piedi le loro abitazioni. Tutto questo è però rallegrato dai continui murales che sostituiscono i cartelli o le insegne ai quali siamo abituati, colorando le pareti o le saracinesche, per identificare le attività che le persone svolgono al loro interno. Un gommista accoglie i suoi clienti aprendo una saracinesca sulla quale compare il disegno di Saetta McQueen, il famoso personaggio di Cars, il cartone Disney. Un sorriso disegnato sul muro indica l’entrata verso uno studio di un dentista. Homer Simpson invece, con quel suo sguardo non troppo furbo, è particolarmente comune di fronte a bar e birrerie.
Da dentro, i nostri sguardi si posano su ambienti spogli ma accoglienti. Aprendo la porta si è quasi obbligati a sedersi sul divano di quella che potrebbe essere una sala da pranzo, ma anche una cucina e uno sgabuzzino, e che quindi rappresenta la stanza principale condivisa da tutti i membri della famiglia. Le camere ci sono, ma non sono poi così utilizzate se non per dormirci. La gente passa gran parte del tempo in Strada. Letteralmente in Strada, seduta sui marciapiedi o conversando coi vicini, obbligando le macchine a rallentare per schivarla. Le suore che sono state in Italia non vedevano l’ora di chiederci: “Dov’è la vostra gente? Quando noi eravamo in Italia non vedevamo nessuno per Strada!”. Ci abbiamo pensato un bel po’. L’altro giorno siamo arrivate a questa conclusione: noi abbiamo costruito le strade per le macchine. Per molti di loro invece la Strada è: un giardino, un campo da calcio, un cortile in cui trovarsi un pomeriggio (o anche un giorno interno) per chiacchierare, un’alternativa alla noia che si consuma semplicemente nell’osservare chi passa, un luogo di commercio o un modo per aggiornarsi sulle novità. Le loro macchine viaggiano su strade che portano ben più lontano. Il Brasile è un paese enorme. Il concetto di distanza qua è molto diverso dal nostro. Quando sentiamo parlare di “posti vicini” possiamo aspettarci anche di passare dalle 2 alle 7 ore in macchina. Se un posto è veramente lontano, allora si contano anche 24 ore di macchina e da un estremo all’altro del paese (nord-sud) si impiegano 75 ore. Noi probabilmente dopo 75 ore di macchina arriveremmo in Cina attraversando ben due continenti!
Questo uso della Strada deriva dalla mancanza di spazi pubblici ma anche da un grave indice di disoccupazione nella popolazione, che determina anche la povertà in cui la gente vive e convive: su alcuni volti di queste persone sedute sopra ai loro marciapiedi, si legge una certa rassegnazione. Le cose ormai non migliorano, quindi le scelte cadono su due consolazioni: la religione o la droga.
Abbiamo notato che in Brasile vince chi alza di più la voce: è per questo che le nostre impressioni ci portano a descrivere parallelamente questi mondi, che ricercano, ognuno a suo modo dei seguaci.
La Chiesa, sia essa cattolica o evangelica o pentecostale, si basa molto su riti e cerimonie, che a volte sfociano in credenze che noi definiremmo tradizionali. Siamo arrivate qua con un’idea di messa ricca di partecipazione, a livello di canti, di coinvolgimento della comunità, di spiritualità. E invece, come mai non riusciamo a inserirci nella tipica domenica brasiliana? Perché fatichiamo a sopportare la lunghezza della celebrazione, a trovare un momento in cui pregare in silenzio, ad accompagnare i canti con dei gesti, ad applaudire dopo il Vangelo?
Ci sembra che la fede sia vissuta in modo molto materialistico, anche a causa della precarietà della vita in Brasile, in cui la gente pensa a sopravvivere giorno per giorno. Tutti fanno talmente affidamento a Dio e ai suoi doni che se qualcuno chiede “tudo bem?” (“tutto bene?”), è normalissimo rispondere “sim, graças a Deus!” (“si, grazie a Dio!”). Questo è apprezzabile, forse ne avremmo bisogno anche noi, soprattutto se ripensiamo al vangelo in cui il Signore ci dice di non preoccuparci del domani, “perché il domani si preoccuperà di se stesso” e perché il Padre Nostro sa di cosa avremo bisogno. Dall’altra parte però, questa fede è vissuta in modo un po’ superstizioso, a volte magico, quasi come se le case costruite male dovessero stare in piedi solo grazie all’acqua santa. Ma è proprio questo bisogno di Provvidenza che unisce le comunità e anzi, la gente ha bisogno di sacerdoti che guidino la comunità urlando le loro omelie per farle sentire a tutto il quartiere.
Ecco che dall’altra parte della strada invece, si sentono i famosi fuochi artificiali che segnalano l’arrivo di un carico di droga. È questa la voce che si contrappone a quella della predicazione religiosa. È la voce dei soldi e della felicità, facili e immediati. Il problema qui è che l’idea di spacciare entra abbastanza automaticamente nella lista delle opzioni di vita, anche forse, per assicurarsi una certa incolumità personale, proprio grazie ad alleanze con quegli stessi personaggi malavitosi da cui si vorrebbe scappare. Anche la droga si fa sentire, e cerca seguaci, e promette cose.
Se un bambino cresce in un ambiente da noi definito “sano”, cresce pensando che gli spacciatori siano cattivi. Ma se un bambino è figlio di spacciatori, la sua normalità è il confezionare dosi la notte, addormentarsi a scuola durante la giornata e considerare cattivi i poliziotti che potrebbero uccidere i loro genitori, che ai loro occhi stanno semplicemente “lavorando”.
Quindi, chi è buono? Chi è cattivo? Non potendo rispondere a questa domanda ci prende un certo senso di impotenza e rassegnazione, stesso sentimento di quella gente per strada.
Ecco che ritornano due domande che ci facciamo spesso: “dov’è il Signore in questo angolo di mondo? E perché ci ha mandate qui?”.
Facciamo molta fatica a trovare il Signore sia a causa di questa fede che non capiamo perché troppo distante da quella che viviamo nelle nostre comunità modenesi, sia a causa di queste tristi situazioni che abbiamo visto e toccato, o perchè, per le tante cose da fare, dobbiamo ancora ritagliarci del tempo per riflettere personalmente su cosa ci sta succedendo.
Forse è proprio attraverso la scuola che riusciremo a trovare delle risposte. I bambini sordi, con cui passiamo gran parte del tempo delle nostre giornate, sono un esempio vivo di speranza. Grazie all’amore che ogni giorno viene dimostrato loro dalle suore e dalle loro insegnanti, riusciranno a capire che le loro opzioni di vita possono essere tante e positive, anche nonostante il loro handicap o alle difficili condizioni di vita dalle quali spesso le loro famiglie provengono. I loro sorrisi e i loro piccoli successi quotidiani ci spronano a dare il meglio di noi, anche intessendo relazioni che possano rimanere nei loro ricordi alla fine di questo nostro viaggio.
Pensavamo di essere qui per “aiutare”, ma per ora siamo state noi ad essere aiutate. Stiamo pian pianino imparando la LIBRAS, la lingua dei segni brasiliana, per comunicare con i bambini sordi. Le maestre sono molto disponibili a rispondere a qualsiasi nostra domanda e le suore ci aiutano a risolvere i nostri dubbi. Questa è la bellezza dell’accoglienza che abbiamo sperimentato e che siamo pronte a portare in Italia, in cui ”accoglienza” è ormai una parola usata quotidianamente, senza più riconoscerne il vero significato. “Accoglienza” in Brasile significa abbracciarsi anche se non ci conosciamo, aprire le porte della propria casa a due straniere per bere insieme un caffè, invitarci ad assaggiare frutta che non abbiamo mai visto, cantare canzoni italiane obsolete giusto per dimostrarci che anche qua possiamo sentirci a casa.
Questo è il Brasile in cui siamo capitate, che vogliamo scoprire e in cui vogliamo immergerci.
Su uno dei libretti che ci accompagna in questa Quaresima brasiliana, abbiamo letto un consiglio che cercheremo di fare nostro e che ci sembra calzante con la nostra esperienza: «Entra con tutto te stesso; rimani solo; esci diverso».
Auguriamo quindi anche a voi, che siete parte delle comunità che ci hanno accompagnato fino alla nostra partenza e che ci state accompagnando con la preghiera, una buona Quaresima di riscoperte, a partire da voi stessi.
Vi aggiorneremo presto!
Saluti da Erica e Federica