Continuiamo a pubblicare materiale utile a conoscere il vicariato apostolico di Mongo in Ciad.
Questa volta si tratta di un articolo e di un breve video con alcune foto, scattate soprattutto ad Abéché nell’estate del 2014, quando dieci giovani modenesi per la prima volta hanno visitato questa che (come leggiamo nel sito della diocesi) “per la sua posizione geografica e per le persone che la abitano è una “Chiesa delle frontiere”: tra deserto e praterie; tra le popolazioni nomadi e stanziali; tra le tribù arabe e negro africane; tra l’Islam, il Cristianesimo e l’Animismo; tra i cristiani del nord del paese e quelli del sud”. Fu il primo contatto con la diocesi di Mongo, nato grazie alla conoscenza di p. Filippo Ivardi Ganapini, missionario comboniano ad Abéché. Quello del 2014 non fu un viaggio facile soprattutto perchè alcuni dei ragazzi si ammalarono e una di loro, durante il volo di ritorno, fu perfino trattenuta in Turchia per un “sospetto caso di Ebola” (il caso di Ebola più vicino era a oltre 4000 km di distanza!!). La notizia ebbe un notevole risalto sui media locali e non solo. Qualche mese dopo questo caso fu utilizzato in occasione di un corso nazionale per giornalisti : “Emblematica è stata la copertura mediatica di Ebola in Africa che ha mostrato, ancora una volta, il persistere di luoghi comuni sul continente. Benché l’epidemia abbia interessato in modo più grave e diretto soltanto 3 paesi su 54, la percezione determinata dall’informazione mainstream è stata quella di un intero continente colpito dalla malattia, un continente pericoloso e da evitare (“Hic sunt leones”, è l’avviso che compariva sulle cartografie romane)”. Alcuni Paesi dell’Africa subirono un crollo dei viaggi turistici.
Ecco invece cosa scrissero i giovani al loro ritorno:
So che scrivere due righe a caldo è sempre un rischio: si può essere trasportati da banali sentimentalismi perchè ancora non ci si è dato il tempo per lasciarsi trasformare da quello che gli occhi hanno visto. Però mi dispiacerebbe anche che questa bufera diplomatica – mediatica mi facesse dimenticare, o anche solo mettere da parte, quello che questo viaggio è stato veramente. C’è una parola in francese “brassage”, che non conosce traduzione letterale in italiano; ma per farci capire il senso, i ciaddiani stringevano le mani intrecciando le dita fra loro ed allora ci era chiaro: eravamo lì per mischiarci, per legarci, per farci coinvolgere. Quindi ci abbiamo provato, grazie ad un’ irripetibile opportunità che ci è stata data: vivere ventiquattro ore al giorno insieme a loro, come loro. Dormire nei locali dove spesso vengono ospitati i profughi del non lontano Darfur ci ha fatto pensare alle nostre comode camere da letto; cucinare e mangiare cinque varietà di cibo differente in quattro settimane ci ha ricordato l’abbondanza sulle nostre tavole; centellinare l’acqua nel secchio per fare la doccia ci ha ricordato le vasche da bagno. Abbiamo conosciuto donne che cercano di rendere più dignitosa la vita di altre donne contro la violenza e l’analfabetizzazione; siamo stati ospitati nelle famiglie del villaggio e siamo stati chiamati “nostri figli” da questa gente; abbiamo ascoltato le vite dei giovani e raccontato loro le nostre; abbiamo conosciuto l’indignazione del non essere salutate perchè ragazze e abbiamo visto l’umiltà delle donne con lo sguardo chino. E si, ci siamo anche ammalati. Ma non c’è stato un attimo in cui abbiamo pensato “che sfortunati che siamo!”. Piuttosto abbiamo ringraziato per l’ennesima volta Dio, che per l’ennesima volta ci dava la possibiltà di vivere dignitosamente anche nella malattia, grazie ai soldi che ci permettevano di pagare le cure. Per ora quello che sappiamo fare è ripetere questo grazie, consapevoli che non basterà mai. E cercare di non dimenticare la gioia delle comunità in festa, dei corpi che danzano, delle voci che sempre ci hanno detto “ça va aller, on est ensemble!” “Andrà tutto bene, siamo insieme!”. Senza polemiche, senza accuse al nostro mondo, ma grati a chi ci ha concesso di partire e di tornare così ricchi.