Ancora per conoscere meglio il Vicariato apostolico di Mongo, riportiamo qui la sbobinatura (parziale e con traduzione dal francese) di una testimonianza del vescovo Henri Coudray rilasciata all’inizio di agosto del 2016 (un anno fa) in occasione del suo passaggio a Modena.
“Sono Henri Coudray, gesuita francese e dal 2001 Vescovo della diocesi di Mongo, diocesi nella quale ci sono più del 95% di musulmani e meno dell’1% di cristiani cattolici e protestanti. Questa diocesi è una delle otto diocesi del Ciad. Nella mia diocesi ci sono il 95% di musulmani, ma in tutto, in Ciad, i musulmani sono circa il 55% e i cristiani circa 40%.
È una diocesi con una vocazione: gettare ponti tra cristiani e musulmani. Grazie a Dio e nonostante il contesto regionale, poichè la nostra diocesi ha 400 km di frontiera in comune alla Libia, 1000 km in comune ad Est con il Sudan e 400 km in comune con il Centrafrica. Sono tutti i paesi, la Libia, il Sudan e il Centrafrica, caratterizzati da problemi di relazione tra cristiani e musulmani.
Siamo una diocesi con una situazione particolare per diverse ragionie per questo, quando sono stato incaricato di dare vita alla diocesi su richiesta dell’arcivescovo di N’Djamena, ho fatto un periodo di due anni di studio come vicario episcopale di questa zona all’est del paese. Solo in seguito abbiamo creato una diocesi all’interno di una realtà tutta musulmana.
Nella concezione geopolitica dell’Islam, quando in un paese è presente il 95% di musulmani, allora sei nella casa dell’islam. Che cosa sei venuto a fare qui tu, cattolico? Fondare una diocesi qui è una cosa straordinaria, ma noi di fatto non abbiamo avuto problemi, perchè c’era già un’esperienza precedente di convivialità tra cristiani e musulmani. E credo anche per diverse ragioni.
La prima è che noi non abbiamo mai fatto proselitismo: fino ad ora abbiamo voluto e vogliamo continuare ad essere una presenza di testimonianza di Gesù Cristo attraverso la nostra fede, la nostra vita di preghiera e al servizio dello sviluppo senza frontiere con la completa collaborazione di cristiani e musulmani. Questo esisteva già prima del 2001 quando mi hanno chiesto di aprire la diocesi. Noi abbiamo giovato di questi buoni rapporti perchè il cristianesimo non vuole fare concorrenza all’Islam, ma vuole essere un luogo di dialogo, di vita e di opere.
Probabilmente il secondo motivo per cui è stato possibile creare questa diocesi senza alcun tipo di opposizione da parte dei musulmani è che durante gli anni della guerra noi siamo sempre rimasti nel Paese; non abbiamo mai lasciato il paese col pretesto di essere in pericolo o col pretesto di rimanere isolati. No, noi siamo sempre rimasti. Non per motivi religiosi ma per motivi politici, tre gesuiti e tre missionari occidentali sono stati allontanati, perchè non potessero essere testimoni dell’intervento straniero. Ma alla fine sono tornati.
Terzo motivo per cui questa diocesi è stata creata senza nessuna opposizione: diversi gesuiti, perchè sono stati i gesuiti ad arrivare portando la spiritualità ignaziana, hanno imparato l’arabo. Io ho imparato l’arabo molto bene tant’è che la mia vita missionaria (dopo essere stato a Roma per studiare) è cominciata come professore di arabo in un liceo statale del Ciad al confine col Sudan, in un paese che si chiama Abéché.
Come professore di arabo non ci sono stati problemi. Può darsi che sia a causa del mio modo di essere, di parlare l’arabo (che a quel tempo era già buono), può anche darsi che sia per il “tipo” di musulmani di quel posto. In Africa ci sono due tipi di musulmani: quelli tradizionali, ma attenzione non nel senso di tradizionalisti, quelli dell’Islam dell’Africa nera, dell’Africa negra, del sufismo: sono questi i musulmani maggiormente presenti là.
Poi c’è l’Islam wahhabita che viene da est dall’Arabia Saudita. Come dicevo nella mia zona l’Islam che è maggiormente presente è l’Islam negro nel senso più nobile del termine negro, un islam aperto.
Se tu vivi con loro nel rispetto, in amicizia, senza giudicare, ma con vigilanza perché non si può affermare che islam e cristianesimo sono la stessa cosa, non è questo lo scopo della nostra pastorale. La nostra pastorale è quella dei figli di Dio che si è fatto uomo. La nostra è la pastorale della testimonianza.
All’età di 12 anni Gesù ha detto a sua madre: “Non sai che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. Ha imparato il mestiere di uomo, di giudeo, ha imparato la cultura del suo popolo. E’ per questo che ha fatto una predicazione così vicina al suo popolo con tutte e parabole. Ha imparato per trent’anni, poi ha parlato solo per tre anni. Noi vogliamo essere missionari, noi tentiamo di essere missionari secondo lo stile di Gesù.
Ma penso che il segreto, e Dio mi ha permesso di far così (io non sono l’unico, ce ne sono altri prima di ma, io sono stato il primo vescovo a farlo), sia la convivialità nel quotidiano, le visite, la condivisione delle gioie e delle sofferenze.
Adesso dirò una cosa che forse vi stupirà: noi abbiamo avuto l’occasione di vivere 40 anni di guerra civile e invece di partire noi siamo rimasti e abbiamo vissuto la presenza dell’esercito straniero, l’entrata e l’uscita di diversi orientamenti militari e noi siamo sempre rimasti là. Quando c’erano vittime andavamo ai riti di sepoltura; anche all’interno della parrocchia abbiamo corso dei rischi e il Signore ci ha donato di essere presenti là. Un giorno, c’erano i libici, il governo di Goukouni aveva chiesto l’intervento della Francia e della Libia; il guardiano della chiesa era un arabo (nel Paese c’è circa il 12% di arabi, i restanti sono neri) e quando un giorno rientro, la moglie del guardiano mi dice che sono venuti a cercare Abba Ahmad (il guardiano) e l’hanno portato da qualche parte in città e che loro sono molto preoccupati. Mancava poco al tramonto; non ci ho pensato troppo su: ho preso il motorino, perché conoscevo un ufficiale e sono andata da lui per dirgli che avevano preso il nostro guardiano e non avevamo più notizie, ma non c’era. Quindi sono tornato a casa ed era già notte: la città era deserta perché era già scattato il coprifuoco. A un certo punto davanti a me, a quaranta metri, quattro uomini armati mi hanno fermato e allora ho parlato apposta in francese per far bene capire loro chi fossi; ho detto “sono il sacerdote della chiesa e sto cercando il nostro guardiano”. Si sono messi a parlare in arabo tra di loro ma io ho ben capito: si chiedevano “Lo uccidiamo o non lo uccidiamo?” …solo dopo ho ripensato a questo momento. Poi mi hanno detto di andare e sono rientrato. Quando sono arrivato a casa ho trovato il guardiano che intanto era rientrato! Vedi? Questo piccolo gesto, insieme ad altri gesti di amicizia, di condivisione di momenti difficili crea una profonda solidarietà che niente potrà togliere.
Quando sono arrivato là nel 1974, già prete da un anno, (poi me ne sono andato era il 1984), all’inizio insegnavo nelle classi terminali, per voi italiani, all’università, in francese nel baccalaureato, e uno dei miei studenti mi ha spiegato: “Non preoccuparti se vedi che qualche vecchio marabutto ti è ostile. Ci vorrà del tempo, poi capiranno”.
Dopo 10 anni, nel 1984, sono stato nominato altrove, ho sorpreso i miei collaboratori del Ciad, i cooperanti francesi, gli ordini religiosi, quando sono andato a dire arrivederci ad ognuno, sono andato anche dai marabutti e dagli ulema. Uno di loro mi ha detto pubblicamente, ad alta voce, senza nascondersi: “Non partire, tu sei dei nostri!”. Ecco, sorprendente!
Ho cercato di rispondere con degli aneddoti, degli esempi, per dire una cosa semplice, cioè che l’amicizia, il dialogo si costruiscono innanzi tutto con la condivisione della vita. Certo, prima, ho studiato abbondantemente l’arabo che è difficile.
Ma ciò che è importante è: la vigilanza, il non sincretismo, la non confusione. Essere pienamente nel rispetto dell’Islam, pienamente nell’amicizia delle persone musulmane, ma essere anche attenti a tutti quelli che possono essere i luoghi di confusione, come ad esempio l’Eucarestia che è centrale per noi.
Non vi lasciate impressionare dai media che si focalizzano su quello che chiamano islamismo radicale o jihadismo. Oggi in Italia, come in Francia e dappertutto, c’è molta gente che vive nel rispetto reciproco. Senza essere ingenui e senza mancare di coraggio, possiamo dire di non aver mai avuto tanto bisogno di ascolto, di dialogo, di rispetto come oggi.
E’ una grazia per noi, un’opportunità: noi come cattolici abbiamo un insegnamento ufficiale sul dialogo. Don’t escape from dialogue. Non possiamo scappare dal dialogo. E’ la verità del cristianesimo: Gesu’ si è fatto dialogo per portare la buona notizia. Il dialogo è rispetto anche dell’Islam in un momento particolare della sua storia. Dobbiamo saperlo che noi cattolici abbiamo un magistero, un papa, delle indicazioni precise e insistenti per dialogare. Allora io dico che bisogna capire i musulmani che non hanno papa, magistero, concili, non hanno un’autorità che possa parlare con autorità nel nome dell’Islam.
Dunque bisogna essere molto aperti e al contempo molto attenti a non consegnarsi né alla paura né alla confusione. Penso che se c’è qualcosa che non va, bisogna dirlo chiaramente.
Io sono venuto a Modena come un fratello, ma anche come un mendicante. Come un fratello perché so che quando si moltiplicano le visite tra chiese, la Chiesa si edifica. Come una casa, ci edifichiamo gli uni gli altri, così la fraternità, l’universalità della chiesa prendono corpo. Questo è quello che sperimentiamo.
Ma sono venuto anche come mendicante, perché noi abbiamo una chiesa che ha 1.600.000 km quadrati con dodici soli preti. Una volta e mezzo l’Italia, penso. Grazie a Dio, le nostre comunità sono molto dinamiche, soprattutto quelle circondate da musulmani, che sono provocate positivamente dalla loro presenza. I laici si prendono cura della preghiera (perché non c’è l’Eucarestia e le distanze sono grandi), si prendono cura della catechesi, di organizzare la vita della comunità. Ma non posso limitarmi a dire “la chiesa la fanno i laici”. E allora: a cosa servono i vescovi? A cosa servono i preti?
Noi preti nutriamo la vita della comunità attraverso l’Eucarestia e attraverso l’insegnamento, la catechesi. Allora sono venuto come un mendicante ad incontrare Mons. Erio, anzi don Erio perché lui non vuole che lo chiami “eccellenza”, Erio, mio fratello che apprezzo molto (e credo valga anche per lui). Gli ho detto: “Ecco la nostra Chiesa. Comincia a pensare con i tuoi collaboratori se ci sono uno o due preti che possano venire a lavorare con noi.”