Sono partiti questa mattina i giovani che partecipano al campo di conoscenza e formazione a Palermo e Lampedusa organizzato da Caritas e Centro Missionario. Hanno voluto chiamarlo “A porta si rapi di intra” (La porta si apre da dentro).
Qui di seguito un articolo che hanno scritto qualche settimana fa e pubblicato dal settimanale diocesano Nostro Tempo.
Porti chiusi? E noi come attracchiamo a Lampedusa da Porto Empedocle? Migranti siamo anche noi, che tra poco più di un mese saremo in viaggio verso sud, percorrendo una rotta contraria, o meglio, controcorrente. Pensandoci migranti inversi non siamo noi protagonisti di un percorso che va alle periferie.
Questa volta il centro è proprio Lampedusa, crocevia di uomini che si riconoscono tali. Lo straniero forse ci spaventa non perché mina la nostra sicurezza, ma perché intacca le nostre sicurezze. Come scrive Sukethu Mehta, migrante indiano: «Nelle nazioni ordinate respingiamo il rifugiato perché è la somma delle nostre peggiori paure, il futuro incombente del ventunesimo secolo portato in forma umana alle nostre frontiere.
Dal momento che nel paese da cui proviene non era necessariamente povero, il rifugiato è il promemoria vivente del fatto che anche a noi potrebbe succedere la stessa cosa. L’occidente non viene distrutto dai migranti, ma dalla paura dei migranti».
Oggi, ad emergere, non è la crisi dell’altro, bensì quella del noi, dell’identità umana. Si è sentito spesso parlare dei problemi che queste ondate migratorie portano nei nostri paesi, vite sono state strumentalizzate a scopi politici e per legittimare l’uso della voce grossa, per testimoniare che si ottengono risultati solo imponendosi e rischiando – ma sull’esistenza altrui, sia ben chiaro. Solo un’eco lontana riferiva la brutalità dei lager libici, veri e propri campi di concentramento.
Combattere esige una strategia, ma non può essere a scapito di chi la propria voce non può farla sentire. Sentiamo il ! bisogno di andare oltre. Tanti ques! iti irri solti, chiacchiere da bar che non ci bastano più, andare alla fonte di accattivanti titoli di giornale, sperimentare una conoscenza diretta e cogliere la possibilità di avere un interlocutore autentico.
Sentiamo la necessità di comunicare la gioia dell’incontro, per essere testimoni di un confine che non è punto di separazione, ma di contatto. Tutto ciò non può prescindere da uno schieramento chiaro: in un mondo che ci vuole sempre più ignoranti, abbiamo ancora voglia di vedere con i nostri occhi e sporcarci le mani con la realtà. Non vogliamo costruire muri, ma strade. È questa che riteniamo la sfida della democrazia: essere pronti e disponibili a cambiare punto di vista, per mirare a un bene che sia davvero comune. Questo viaggio si fa ancora più necessario proprio oggi, ora che la paura porta a barricarsi nei singoli stati. Papa Francesco ha detto di accogliere secondo la possibilità di «integrare, educare e dare lavoro » e noi stessi riconosciamo impellente l’esigenza di strategie, ma non è accettabile differenziare il diritto alla vita su base etnica. Lampedusa serve anche a questo, a riconoscere che in quella piccola isola, più vicina all’Africa che all’Europa, si tende una mano a chiunque sia in mare, perché ci si riconosce tutti fratelli e tutti bisognosi di aiuto. Come cittadini attivi sappiamo bene che il tema dell’immigrazione ha tante sfumature, che è un argomento sulla bocca di tutti e che non ha soluzioni immediate, ma crediamo anche che esista un’alternativa che ci renda più umani.
In una storia ci sono sempre due versioni: in fondo vogliamo solo ascoltarle entrambe prima di prendere posizione. A tutti noi il tentativo della ricerca di nuovi spunti.