Che cos’è un confine? Non è forse solo una linea che mettiamo a separarci – a schermarci, quasi – da chi è diverso, da chi bussa alla nostra porta? E se questa porta la aprissimo? Quante domande, quante inquietudini ci portano queste vite affamate di vita che camminano appena al di là dai nostri confini, lungo le grandi rotte della migrazione.
Che cos’è un confine? Credo che porsi questa domanda sia stato inevitabile per tutti noi partecipanti al campo In direzione ostinata e contraria, proposto dalla Caritas di Carpi, dal Centro Missionario di Modena e da Bambini nel deserto, e svoltosi tra Venezia e Trieste per approfondire la conoscenza di ciò che accade lungo la rotta balcanica. Ricordo il momento preciso in cui questa parola, «confine», ha iniziato a martellarmi nella mente. Percorrendo a ritroso l’ultimo tratto della rotta, che dalla Slovenia porta in Italia, tra gli alberi, le rocce carsiche e gli oggetti lasciati dai migranti nelle notti precedenti, ci si imbatte ad un certo punto, quasi casualmente, in un cartello. Di qua Italia, di là Slovenia. Ma gli alberi sono sempre lì, e così le rocce, gli scorci sul mare, le scarpe rotte abbandonate qua e là. E non puoi fare a meno di chiederti cosa sia, infondo, un confine.
E avendo la possibilità di incontrare qualcuno dei volti che di lì sono passati, assieme a quelli di chi ha provato, come poteva, ad accoglierli, un’altra domanda si affaccia: non è che forse il confine lo abbiamo passato noi, e da un pezzo, se, come ci ha detto qualcuno, «la solidarietà è reato»? Queste vite che camminano nel cuore dell’Europa partendo da luoghi così lontani da noi, ma che forse sono i figli anche delle nostre scelte, non ci interessano. Che se ne occupi qualcun altro. Che non mi passino nemmeno sotto agli occhi. Partecipare a questo campo ci ha dato il privilegio di incontrare qualcuno che, ostinato e controcorrente, lotta per rimanere aggrappato alla compassione sepolta da qualche parte nel suo cuore, che la riporta alla luce, che con coraggio ne fa la sua missione. Si può accogliere. Si deve accogliere.
Le vite di chi migra sono cariche di speranza: se non altro, speranza che quel che sta davanti sia meglio di ciò che hanno lasciato dietro. Ed è questo che più di tutto mi stupisce: chi decide di partire sulle grandi rotte migratorie ripone in me, ripone in noi, una grande fiducia: spera di trovare in me, in noi, qualcuno che ha deciso di abbattere le frontiere del suo cuore. Quasi mai ne siamo all’altezza. Ma dobbiamo fare meglio. Osiamo il passo oltre il confine!
Pietro Barani
pubblicato su Nostro Tempo del 12 settembre 2021