Padre Christian Carlassare è un missionario comboniano, nominato qualche tempo fa vescovo di Rumbek, in Sud Sudan. L’ordinazione ha però dovuto aspettare, perché, in circostanze ancora da chiarire, padre Christian è stato vittima di un attentato, durante il quale è stato colpito alle gambe da diversi proiettili. Fortunatamente è sopravvissuto, si è rimesso in piedi ed è pronto a ripartire. Lunedì sera, presso la parrocchia della Madonnina, Carlassare ci ha regalato un po’ del suo tempo, raccontandoci della complessa situazione che attraversa ormai da decenni il Sud Sudan, prima come regione e poi, dopo l’indipendenza dal Nord, come giovanissima nazione.
Dalle parole di padre Christian, inizia a prendere forma una terra che ora è bagnata dalla pioggia e rigogliosa, ora è secca e spaccata dal sole. E come la terra anche il popolo, così fecondo di vita e così segnato, allo stesso tempo, da una violenza pervasiva e asfissiante. È difficile riassumere qui, in poche righe, la complessità delle sofferenze che il Sud Sudan ha vissuto e vive. Basta guardare alla bandiera stessa, in cui il nero del popolo e il verde di questa terra feconda si mescolano al rosso, memoria del sangue delle tante vittime. Quanto mai sorprende, allora, l’amore per questa terra, per questo popolo, che traspare nelle parole e negli occhi di padre Christian, come a fondamento della sua testimonianza.
«Non ha paura?», chiede qualcuno. Come si può non avere paura, quando ti viene insegnato di visitare i villaggi con lo zaino sempre pronto, per correre via in fretta e furia? E come poi si può proseguire, quando quella violenza che vedi diffondersi intorno a te, alla fine ti travolge in prima persona? Paradossalmente – e lo dico senza voler indugiare né nell’eroismo né nel dolorismo – dalla testimonianza di padre Christian emerge quasi un’esperienza di battesimo. È stato un passo in più nel diventare parte di quel popolo che tanto ama, e che è la prima vittima della violenza. «Penso che il Sud Sudan, le tante vittime che purtroppo ci sono, tutta questa violenza, che capita agli altri, perché no, è capitata a me. Il fatto che sono riuscito a rialzarmi è un segno che anche il popolo deve riuscire ad alzarsi. Le parole che ho detto dopo l’operazione, che sono parole di perdono, significano riprendere il cammino con questa gente innocente, perché vittima della violenza a sua volta». La vita del missionario è intrecciata, insomma, alla vita del popolo.
Decidere di partire per la missione è spendere la propria esistenza per il popolo a cui sei inviato, donarla tutta, senza riserve. «Io appartengo a quella gente lì, la mia storia si è intrecciata alla loro. Li ho visti nascere, morire, … un’esperienza unica». Sono queste, credo, le parole di un innamorato. Questo è sembrato, più di ogni altra cosa, padre Christian Carlassare: un uomo innamorato perdutamente del Sud Sudan, delle sue ferite, dei suoi traumi, come della gioia, delle vite che ha incontrato e a cui ora appartiene. Forse è proprio questo missione: regalarsi per appartenere a qualcun altro.
Pietro Barani
pubblicato su Nostro Tempo del 12 settembre 2021