Carissime, carissimi,
torno sui vostri schermi con un’altra lettera!
Mi sembra che sia passato tantissimo tempo dalla prima lettera che ho scritto, ma le giornate passano veloci, e di giorno in giorno sembra che non ci sia nulla da raccontare in questa vita lenta, semplice e ordinaria, poi i mesi volano via ed ora che devo scrivere non so da che parte cominciare!
Penso sia doveroso cominciare a raccontare da quella che è la mia principale occupazione: la scuola.
La scuola dove lavoro è una delle scuole gestite dall’associazione Zanantsika, fondata da una coppia italo-malgascia, Claudio e Theodille, che vive in Italia da tanti anni. Le scuole dell’associazione accolgono alunni provenienti prevalentemente da famiglie povere, che non potrebbero permettersi di garantire ai figli un’istruzione di qualità, che solo le scuole private possono garantire. Gli studenti in totale sono circa 350, divisi in due sezioni, composte da quattro classi ciascuna. La scuola è una secondaria di primo grado che segue il modello francese, quindi il ciclo scolastico dura quattro anni, partendo dalla prima media fino ad arrivare all’equivalente della prima superiore. Le classi in cui insegno io sono sei, ovvero dalla seconda media alla prima superiore. La fascia d’età dei ragazzi va dai 12 ai 18 anni circa, i percorsi scolastici qui sono raramente lineari, difficilmente riescono a iniziare la scuola nei tempi “standard”, spesso la devono interrompere per motivi di natura varia e inoltre qui in Madagascar non ci si fa problemi a bocciare gli studenti se si ritiene necessario.
Vi avevo già anticipato nella prima lettera del mio comico inizio, rompendo una panca non appena mi sono seduta alla cattedra. Sono contenta di farvi sapere che anche le lezioni a seguire sono state luogo di risate, soprattutto grazie ai miei tentativi di spiegare le lezioni di inglese anche in malgascio. Con il passare delle settimane i ragazzi si sono sentiti sempre più a loro agio a fare domande, intervenire e prendermi in giro ogni qualvolta mi cimento nella loro lingua, e per me sono tutti segni positivi!
Non vi nascondo che, soprattutto all’inizio, ero decisamente in preda all’ansia all’idea di stare in classe da sola, pensare a un programma fattibile per le conoscenze e competenze dei ragazzi, spiegare in un modo che fosse comprensibile e relazionarmi con studenti e colleghi data la mia scars(issim)a conoscenza della lingua. Come spesso mi accade, le mie paure e ansie erano fuori misura rispetto alla realtà: sia gli altri insegnanti che i ragazzi sono pazienti, comprensivi e disponibili con me, e mi dimostrano una gentilezza che spesso mi lascia stupita.
A questo proposito mi sento di nominare in particolare il mio collega di inglese, Fleury, che per ovvi motivi è stato il collega con cui più ho avuto modo di relazionarmi in questi mesi. Nonostante la considerevole barriera linguistica (la conoscenza dell’inglese non rientra fra le sue migliori doti, nonostante il suo ruolo, e io ho la stessa capacità di espressione in malgascio di un bimbo di circa tre anni…forse), si è speso generosamente per assicurarsi che io capissi il più possibile come funzionavano le cose, e ad ogni mia richiesta o domanda risponde sempre, sempre, sempre con un sorrisone carico di disponibilità. La semplicità con cui dona liberamente il suo tempo e le sue energie ogni volta che ho bisogno mi lascia spesso spiazzata, perchè so bene che la mia presenza significa lavoro in più per lui, quando magari potrebbe fare altro o semplicemente riposare, ma finora non c’è stata mai una volta in cui mi abbia accolto con qualcosa di diverso da un “okay!”, “let’s go!” o un “of course!” entusiasti e sorridenti. Non mi è dato sapere quando effettivamente gli sia di peso questo carico in più che gli è capitato, quello che posso dire è che dal mio punto di vista sembra fare tutto sempre con piacere e senza troppo sforzo. Con il passare del tempo, e con il lento (lentissimo) crescere delle mie capacità di lingua, sto riuscendo a relazionarmi con gli altri colleghi, oltre Fleury, che allo stesso modo sono accoglienti, attenti e disponibili, oltre che sinceramente interessati a conoscermi. Sono ben consapevoli del fatto che io capisco pochissimo quando parlano fra di loro, ma in modo sempre molto naturale cercano di ripetermi le cose con parole più semplici, oppure tentano di tradurle perchè mi siano comprensibili, perdendo interi quarti d’ora ad assicurarsi che io capisca e sia partecipe in un qualche modo della conversazione. Anche l’aula insegnanti conosce bene il suono delle risate mie e dei miei colleghi, e io mi sento sinceramente fortunata a poter condividere il lavoro e le giornate con loro.
Voglio raccontarvi un episodio in particolare, che penso sia significativo per dare un’idea del rapporto che c’è con i miei colleghi. Qualche settimana fa, due studenti della 3A (ovvero prima superiore), hanno tentato una bravata adolescenziale con la sottoscritta: dando per scontato che non li notassi, che non li distinguessi e che non sapessi i loro nomi, hanno deciso di svignarsela dalla lezione di inglese, rigorosamente dopo l’appello, cosicchè da risultare presenti. Il giorno dopo ne ho parlato con i miei colleghi, per capire se fosse normale che gli studenti sparissero dalle lezioni (ovviamente non lo era) e, appurato chi fossero i due studenti, il direttore ha deciso di sospenderli per la giornata e, per buona misura, di fare la ramanzina a entrambe le classi di terza. Per la sgridata generale erano presenti tutti gli insegnanti insieme, e sebbene io non sia riuscita a capire granchè di quello che hanno detto, sono riuscita a comprendere un concetto in particolare che hanno ribadito più volte: a scuola tutti gli insegnanti sono uguali, io come i miei colleghi malgasci. Penso potrete capire l’immensa gratitudine che ho provato per tutto il corpo insegnanti, che senza che io lo chiedessi o me lo aspettassi, ha fatto capire a me e agli alunni che la mia presenza a scuola non è una presenza sola e isolata, ma che c’è supporto da parte di tutti.
Per quanto riguarda invece gli studenti, posso dirvi senza ombra di dubbio che li adoro. Sono incredibilmente rispettosi, ma si sentono comunque abbastanza a loro agio da scherzare con me, ridere dei miei errori linguistici e cercare di comunicare e farmi domande non solo sulle lezioni, ma anche su di me e sul mio essere qua. Qualcuno dei ragazzi più grandi si è persino lanciato in dichiarazioni d’amore e in qualcosa che sembrava una proposta di matrimonio, quindi penso di poter dire che alcune barriere, paure e formalismi non ci sono più ormai (la risposta alla proposta è stata ovviamente no, e citando la loro giovane età fra i vari motivi per il no mi è stato risposto: “non è un problema, teacher”).
Insegnare inglese mi permette, inaspettatamente, di gettare uno sguardo nelle loro vite. Inaspettatamente perchè, dal basso della mia inesperienza, non avrei pensato che fare degli esercizi di grammatica o fargli scrivere delle frasi in inglese mi avrebbe permesso di conoscerli o di scoprire qualcosa di loro, invece mi sono ricreduta molto in fretta. Durante le lezioni ho intravisto uno scorcio delle loro giornate, e ho scoperto così che la quasi totalità dei miei studenti lavora. Quando non si va a scuola si aiuta in casa con i fratelli più piccoli, con le faccende domestiche, si va per strada a vendere quello che la mamma cucina, ci si occupa degli zebù, si raccolgono le spezie e il riso; il tempo dello studio è il tempo restante, la sera, la mattina presto. Tutti i miei studenti sanno cos’è la fatica, diversi di loro conoscono la fame da vicino, sono consapevoli dei sacrifici che tutti i loro genitori fanno per farli studiare, perchè qui l’istruzione funziona ancora come un buon ascensore sociale.
Stare in classe con loro mi obbliga a tenere gli occhi aperte sulle loro vite e, più ampiamente, sulla vita che si vive qui. L’inglese per come l’ho imparato io parte da dei presupposti scontati per la vita in occidente, ma che qui non trovano corrispondenza: niente internet, niente computer, niente dizionari, niente libri, ciò che si impara deve essere a misura delle pagine dei loro quaderni, passa dal segno del gesso sulla lavagna a quello delle loro penne sulla carta. Forse potrete immaginare il forte senso di inadeguatezza che provo di tanto in tanto davanti ai loro sguardi: non solo non sono un’insegnante di professione, ma sono totalmente avulsa dalla vita che vivono loro, e dall’esperienza di adolescenza che stanno facendo. La domanda che spesso mi sono posta è stata questa: “ma io esattamente, che cosa ho da dire o dare a questi ragazzi?”.
Questa domanda non porta da nessuna parte, ma la sua utilità risiede nel farmi ricordare che, in realtà, io non sono qui per dire o dare nulla a nessuno. La prima settimana di dicembre ci sono stati gli esercizi spirituali per i missionari italiani organizzati dalla diocesi di Reggio Emilia, e una domanda in particolare mi è rimasta da quei giorni: “io perchè e per chi sono, proprio ora, proprio qui?”. La verità è che io non sono qui per dispensare la mia conoscenza, le mie abilità, le mie capacità (che peraltro sono ben poche), bensì sono qui per stare alla pari, mettendo a disposizione di chi mi è intorno ciò che sono, in maniera semplice e sincera. Che questo avvenga insegnando l’inglese ben venga, ma non è il centro della mia scelta di stare qui. A conti fatti, potrei quasi dire che ho imparato più parole di malgascio dai miei studenti di quante loro ne abbiano imparate da me in inglese, mi fanno dono della loro pazienza in ogni lezione, mi aiutano a non prendermi sul serio quando sbaglio a parlare o quando non riesco a spiegare bene le lezioni, e se mi vedono in giro per il paese mi salutano dicendo “good morning teacher!”, facendomi sentire meno straniera e sconosciuta quando cammino per strada.
In questi mesi ho potuto fare esperienza dell’amore di Dio attraverso le relazioni che piano piano si stanno costruendo qui. Nella relazione con la Debby, con le suore, con i miei colleghi, con gli studenti, con i dipendenti dell’ospedale. In ogni giorno che vivo qui ricevo gesti di vicinanza e di bene dalle persone che mi sono intorno, e davvero non mi sento abbandonata. Anche nelle giornate più faticose c’è qualcosa per cui gioire, qualcosa di piccolo, ordinario, ma che esprime un’attenzione e una gentilezza sinceri. Cercherò di dipingervi un quadro di quello che sto cercando di dire a partire da due episodi: il primo è di qualche settimana fa e riguarda una mia studentessa che, saputo che ancora non avevo mangiato i letchi, si è presentata il giorno dopo a scuola per farmi avere un consistente mazzo di ramoscelli. Il secondo è giusto di questi giorni: un paio di giorni fa aveva piovuto tanto, e mentre mi dirigevo verso la scuola non sono stata attenta alla strada scivolosa e ho dato una clamorosa culata per terra (ormai tema ricorrente). Ero convinta che non mi avesse vista nessuno, l’avevo giusto raccontato a Nicola, un medico italiano che sta qui per un paio di mesi. Il giorno dopo ho notato che stavano rifacendo la strada davanti alla mia stanza, fino ad arrivare al punto in cui ero caduta; io non ci ho dato molto peso, pensando che fosse un lavoro che avessero in mente da un po’. Invece stamattina è venuto da me uno dei ragazzi della menuiserie e mi ha detto: “l’altro giorno ti ho vista cadere e mi è dispiaciuto tanto, quindi abbiamo rifatto quel pezzo di strada così non ti fai più male!”. Oltre alle risate e al mio imbarazzo per essere stata vista, sono rimasta genuinamente stupita per quel gesto di cura gratuito nei miei confronti.
Forse faccio fatica a rendere l’idea della vita qui e di come io mi senta accompagnata, ma spero che mi crederete sulla parola quando dico che nell’ordinarietà vedo il compimento delle promesse di Dio per mio tempo qui. Non sapevo bene cosa mi avrebbe accolta quando sono partita, ma ciò che vivo supera in meglio le mie aspettative, che mi vedevano piangente e molto nostalgica per i primi mesi, e invece i sorrisi e le risate superano di gran lunga le lacrime e i momenti di tristezza. Come si dice da queste parti “Andriamanitra mahay mikarakara zavatra”, ovvero “Dio sa prendersi cura delle cose”. A dire la verità per ora l’ho sentito dire solo dalla Debby, ma penso comunque che sia una frase valida, vera e incarnata nella mia vita qui. Il Natale quest’anno avrà di sicuro un aspetto diverso, da italiana non posso non associare questo periodo al freddo, alle giornate corte, alla cioccolata calda e alle tisane, alle luminarie che decorano le città, alla carta regalo, ai pranzi con la mia numerosa e chiassosa famiglia e alle cene in casa con gli amici, ma sebbene qui manchino luminarie e cioccolata calda, l’arrivo del Natale si rende presente nei “good morning teacher!” che di tanto in tanto mi accolgono per strada, in un un mazzo di letchi ancora un poco acerbi, e in una strada fatta nuova affichè nessuno si faccia più male.
Ci sarebbero tante altre cose da raccontare, ma intanto vi invio questo, altrimenti questa lettera non vi raggiungerà mai! Vi lascio qualche foto di questi mesi; in alcune rivedrete Judith e me con uno dei suoi bimbi, l’aperitivo di saluto pre partenza alla Debby, mentre quelle che vedete scattate a scuola le ha fatte un fotografo che è stato qui per un paio di settimane. Io ancora sono timida e di foto a scuola non ne ho fatte… cercherò di farmi coraggio e farne qualcuna prossimamente! Spero che anche tutti voi riusciate a intravedere un po’ della bellezza che io vedo e vivo ogni giorno.
Con grande affetto vi auguro buone feste e buon Natale! Spero che per tutti voi possa essere un periodo di gioia, condivisione e serenità, così come lo è per me.
Vi penso tantissimo e vi mando un abbraccione!
La vostra,
Aci
ecco alcune foto:










