Per ricordare Luisa Guidotti

Domenica 17 maggio 2020 abbiamo voluto ricordare Luisa con un video a lei dedicato che potete trovare qui

 

In occasione della Giornata per i missionari martiri avevamo pubblicato sul sito una pagina dedicata a lei che potete trovare a questo link

Abbiamo pubblicato anche un video con parecchie foto e una canzone dedicata a Luisa che potete trovare qui

Ci è arrivato anche un ricordo scritto da parte di Maria Cavazzuti, amica di Luisa che si occupò anche della pubblicazione del libro Shona con gli Shona.
Ecco qui di seguito quanto ci ha inviato

Quest’anno il giorno della nascita di Luisa Guidotti Mistrali  cade in domenica ed è una felice coincidenza, perché ci trova spiritualmente riuniti in tanti, nonostante il momento difficile che stiamo attraversando.

Prima di riflettere sulla sua testimonianza di fede è opportuno, penso, ricordare le tappe salienti della sua vita.
Luisa Guidotti Mistrali nasce a Parma il 17 maggio 1932 da una famiglia agiata e profondamente religiosa. Nel 1947 si trasferisce a Modena, dopo la morte della madre. Frequenta il liceo scientifico e dedica, contemporaneamente, molto tempo al settore della Gioventù femminile dell’Azione Cattolica nella parrocchia di S. Domenico e in Centro Diocesano.  S’iscrive alla Facoltà di Medicina, convinta che la professione medica l’aiuterà a realizzare il sogno, coltivato fin dall’adolescenza, di diventare medico missionario ed essere, in questo modo, testimone della bontà di Dio fra la gente, tutta la gente, ma specialmente fra gli ammalati, i poveri, i sofferenti.
Laureatasi nel 1960, entra nel 1961 a far parte dell’Associazione Femminile Medico Missionaria che la manda, nel 1966, in Rhodesia (ora Zimbabwe). Nel 1969 le è affidato il poverissimo ospedale di All Souls, che comprende anche il lebbrosario di Mtoko, in una vasta regione, di cui Luisa è l’unico medico, e dove resta fino alla morte.
Nel 1976, quando già è in atto la guerra di liberazione dal colonialismo, è incarcerata e processata per aver curato un ferito d’arma da fuoco senza denunciarlo al regime, come prevedeva la legge. Assolta, resta ad All Souls per condividere la vita di quella che, ormai da anni, è diventata “la sua gente” e per alleviare le sofferenze di tutti. La guerra di indipendenza si fa sempre più aspra. Molti fuggono. Luisa resta. Il 6 luglio 1979 è ferita ad un posto di blocco da un mercenario al soldo del regime ed è lasciata morire dissanguata.

In questo tempo di pandemia mi è capitato spesso di rivolgermi a lei, affinché intercedesse presso il Signore per noi. Sono certa che l’abbia fatto, che si sia “data da fare”, come diceva lei quando incontrava difficoltà. Ce ne accorgeremo più avanti nel tempo, perché gli accadimenti vicini ci restano spesso invisibili, infatti abbiamo bisogno di prendere da essi un po’ di distanza per riconoscerli.
In questi momenti di smarrimento ci è stata certamente vicino con affettuosa, fraterna partecipazione, memore anche della professione medica che ha esercitato.
Quando  Luisa era ragazza si parlava spesso fra noi giovani dell’Azione Cattolica di vocazione. Un termine che oggi sembra un po’ in disuso. Vocazione non soltanto come chiamata  a un servizio o a un ministero particolare nella Chiesa, ma nella sua accezione più ampia,  come strada professionale e umana che ciascuno è chiamato a percorrere .
Per Luisa la scelta era chiara e inequivocabile. Lei si sentiva chiamata ad essere vicina a chi soffre nel corpo e quindi anche nello spirito. Desiderava aiutarlo concretamente ad uscirne o almeno sperava di confortarlo, facendosi a lui/lei prossimo.
Si può scegliere di frequentare la Facoltà di Medicina  per svariati motivi: per tradizione familiare, perché la professione medica è prestigiosa e, ad ogni livello, assicura un futuro economico. Inoltre, il medico ha un notevole ascendente sul malato che vuole guarire e spera di uscire al più presto dalla sua situazione  di dolore e di timore.
Né il guadagno, né il prestigio attiravano particolarmente Luisa: apparteneva ad una famiglia benestante e non era ambiziosa. Ma  la professione medica la portava immediatamente a farsi prossimo delle persone sofferenti. La medicina inoltre ben si accordava col suo sogno missionario. Nei paesi di missione la sanità era molto scarsa, pressoché inesistente. Essere medico diventava una carta vincente  per entrare in  associazioni attive in territori di missione.
Prossimità alla gente che soffre, curiosità verso tutto ciò che è nuovo e diverso, anche spirito d’avventura,  in un’epoca in cui le ragazze rimanevano in famiglia fino al  matrimonio: ecco alcuni dei motivi per cui Luisa divenne medico e medico missionario.
Per carattere Luisa era gioiosa, aperta al contatto umano, desiderosa di stare tra la gente, pur diventando timidissima e perfino maldestra se non si sentiva accettata.
Pienamente dedita e inserita nell’ospedale di All Souls, nonostante la povertà della struttura e la lontananza dall’ospedale di Harare ben più attrezzato, Luisa era felice e si sentiva realizzata.
Anche nelle difficoltà degli ultimi anni, dovute alla guerra e alla solitudine, si sentiva serena nell’incrollabile certezza che il Signore l’accompagnava e avrebbe permesso che accadesse solo ciò che per lei  e per tutti era il meglio.
L’incontro col Signore avvenne per lei al rientro nel suo ospedale, dopo aver condotto un’ammalata  allo ospedale di Harare, il 6 luglio 1979.
Pochi giorni prima aveva scritto ad un’amica, citando il salmo 23: “Il Signore è il mio pastore non manco di nulla”.

Maria Cavazzuti

Maria Cavazzuti aveva ricordato Luisa anche in Duomo a Modena il 17 maggio del 2019
clicca qui il video di quella occasione

E qui di seguito il testo di quella testimonianza

Duomo 17 maggio 2019

 

 

RICORDANDO LUISA GUIDOTTI MISTRALI

Ho avuto il dono e la gioia di essere stata amica di Luisa Guidotti Mistrali . La sua foto nel mio studio,  mi accompagna da 40 anni  col suo sorriso affettuoso e lievemente ironico.
E così, guardandola, ritornano i giorni della giovinezza quando noi ragazzine della G.F. di A.C. ci incontravamo nella chiesa di S. Domenico e lei, Luisa, la nostra delegata, ci parlava della bellezza di vivere accompagnate dalla premurosa tenerezza del Signore.

Qualche dato sulla sua vita ci sarà utile per riflettere sulla sua storia.
Luisa Guidotti Mistrali nasce a Parma il 17 maggio 1932 da una famiglia agiata e profondamente religiosa. Nel 1947 si trasferisce a Modena, dopo la morte della madre. Frequenta il liceo scientifico e dedica, contemporaneamente, molto tempo alla G.F. d’A.C. in S. Domenico e in Centro Diocesano.  S’iscrive alla Facoltà di Medicina, convinta che la professione medica l’aiuterà a realizzare il sogno, coltivato fin dall’adolescenza, di diventare medico missionario ed essere, in questo modo, testimone della bontà di Dio fra la gente, tutta la gente, ma specialmente fra gli ammalati, i poveri, i sofferenti.
Laureatasi nel 1960, entra nel 1961 a far parte dell’Associazione Femminile Medico Missionaria che la manda, nel 1966, in Rhodesia (ora Zimbabwe. Nel 1969 le è affidato il poverissimo ospedale di All Souls, che comprende anche il lebbrosario di Mtoko, in una vasta regione, di cui Luisa è l’unico medico, e dove resta fino alla morte.
Nel 1976, quando già è in atto la guerra di liberazione dal colonialismo, è incarcerata e processata per aver curato un ferito d’arma da fuoco senza denunciarlo al regime, come prevedeva la legge. Assolta, resta ad All Souls per condividere la vita di quella che, ormai da anni, è diventata “la sua gente” e per alleviare le sofferenze di tutti. La guerra di indipendenza si fa sempre più aspra. Molti fuggono. Luisa resta. Il 6 luglio 1979 è ferita ad un posto di blocco da un mercenario al soldo del regime ed è lasciata morire dissanguata.

Se riflettiamo sulla sua vita e sulla sua morte scopriamo che  la sua è una morte annunciata per una specie di intima necessità iscritta nella sua vita, solidale con gli ultimi della terra, solidale per amore, come  ha fatto Cristo.
Una necessità, perché la fedeltà agli ultimi, vissuta fino in fondo, inevitabilmente si scontra con un’altra necessità di segno opposto, intima alla storia di questo mondo, che si fonda sul potere e, per costruirlo e per conservarlo, sulla violenza. Questa necessità non può tollerare, non può sopportare il giusto.
Leggiamo nel libro della Sapienza (cap.2, 10-19).  Gli empi “(…) dicono fra loro, sragionando: (…) la nostra vita è  breve e triste; (…) Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature (…). Spadroneggiamo sul giusto povero(…) la nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché ci è d’imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge(…) è diventato per noi una condanna(…) ci è insopportabile solo il vederlo(…). Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti per conoscere la mitezza del suo carattere (…).
Chi pratica le beatitudini: beati i poveri, gli afflitti, beati i miti, chi ha fame e sete di giustizia…, e Luisa le ha praticate, imbarazza e rimprovera con la sua stessa esistenza chi trasgredisce la legge di Dio, pur iscritta nella coscienza di ogni uomo. Chi si sforza di vivere il discorso della Montagna non può aspettarsi su questa terra che il rifiuto dei potenti, la loro persecuzione e spesso, quasi sempre, la morte.  E’ quanto è capitato a Luisa.
Le situazioni storiche in cui si è trovata a vivere anticipavano, in molti campi, i problemi che  rendono  complesso e incerto il nostro tempo: in primo luogo la difficoltà a coabitare con i diversi, senza distruggerci e  senza ghettizzarci a vicenda. Luisa denuncia questi mali con le parole e vi si oppone con l’azione.
Luisa non è mai stata del mondo nel senso giovanneo del termine, ma ha vissuto profondamente radicata nel mondo e del mondo ha condiviso le sofferenze, i problemi e le gioie: la guerra in Italia nella prima adolescenza e le fatiche del periodo postbellico, poi la miseria dell’Africa, le difficoltà dell’incontro/scontro fra culture diverse fino alla guerra per l’indipendenza della allora Rhodesia. Condivide le speranze, le gioie, i dubbi e le sofferenze delle persone che incontra, è solidale con chi soffre a qualunque parte sociale o politica appartenga.
Sa anche che non è dato a noi di veder realizzati, qui e ora, i cieli nuovi e le terre nuove della promessa, ma che ci  è chiesto di rispondere, ogni giorno, all’ appello delle beatitudini : “avevo fame, avevo sete, ero pellegrino, carcerato…”.  Sa anche di non poter usare gli strumenti, i sotterfugi del mondo e di non poter vincere come  vince  il mondo. Le tentazioni di Gesù le sono sempre presenti.
Quando la guerra in Rhodesia è al culmine, quando è restata sola e senza aiuti, le è posto un drammatico interrogativo: rientrare in Italia o restare a All Souls. Sa che il rientro in Italia, pur legittimo, significherebbe  sia per lei, che per gli Africani, un tradimento, un venir meno alla solidarietà promessa, considerata la tragicità del momento. Non ha dubbi: deve restare.
Dove ha trovato il coraggio per farlo? La preghiera, il dialogo col Signore le danno la capacità di discernere senza faziosità e la forza di resistere nel pericolo estremo. E specialmente l’incrollabile certezza dell’amore  del Padre le fa superare  i timori, le fatiche, i dolori: “Se mi impiccano – scrive – cadrò nelle braccia del Padre”.
Nel nostro tempo, caparbiamente attaccato ad un individualismo feroce che non solo esclude gli altri, ma perfino li considera tendenzialmente nemici, la vicenda di Luisa forse non è di facile comprensione. Eppure, per chi si sforza di vivere secondo il vangelo, non solo a parole, la sua vita può essere considerata di una esemplare normalità. Luisa ha trovato di buonora la perla rara della parabola e ha “venduto” tutto per comprarla. Non ha fatto un “sacrificio”, non l’ha fatto per meritarsi qualcosa in cambio. Semplicemente, la perla la rendeva felice e non sentiva la mancanza di quello che  lasciava. La perla era l’amore del Padre, l’amicizia coi fratelli e la pace nel suo cuore. “Oh com’è bello, come è dolce vivere insieme come fratelli. E’ come olio prezioso e profumato(…) E’ come la rugiada dell’Hermon (…)” (S.132).  Esclamava in una delle sue lettere.
Difficoltà, incomprensioni, povertà, guerra, rischio della vita non erano da lei cercate, ma faticosamente quanto serenamente accettate per condividere la difficile e complessa vicenda umana. Pur nella sofferenza, che accettava per restare fedele all’ amoroso servizio degli ultimi, era felice: stava realizzando il meglio di se stessa.
Dopo il processo, Luisa torna ad All Souls; altre prove l’attendono. Nel gennaio del ‘77 la zona dell’ospedale si trova  inclusa in un “protected village”, circondato da una rete metallica e sottoposto a coprifuoco per 12 ore al giorno, durante le quali nessuno può né uscire, né entrare.  Le difficoltà per gli abitanti e per i trasferimenti degli ammalati diventano enormi, spesso insormontabili.
Nella missione di Musami 7 missionari sono uccisi. Molte missioni restano sguarnite. Luisa scrive :”Pochissimi sono i missionari europei ancora nelle missioni. Quello che ci fa soffrire di più, da una parte, è l’abbandono affettivo ed effettivo in cui siamo lasciati e, dall’altra, l’abbandono della pratica religiosa della popolazione.”  Chi muore o fugge non è rimpiazzato dalle associazioni missionarie. Missionari che partano come volontari non se ne trovano. Ora la persecuzione non colpisce solo i missionari in quanto europei e quindi assimilati al governo coloniale da abbattere, è rivolta anche alla gente comune, E’ ancora Luisa a parlare : “…il semplice fedele un po’ per paura, un po’ perché simpatizza coi partigiani suoi liberatori politici, molto per ignoranza abbandona la Chiesa perché gli dicono :’ Gesù Cristo è europeo, la Bibbia è stata scritta dagli Europei…”.
. Il pericolo incombe ogni giorno: “…è chiaro che può uccidere anche noi chi ha ucciso un bimbo di venti giorni, figlio di missionari. Eppure non ho paura, sono serena, sono contenta, E’ il Signore che ci fa questa grazia! Non possono farci nessun male se non è Lui, il Signore, che lo permette e se lo permette è per il meglio”.
Oggettivamente Luisa è sola. Sola a far fronte alle gravi  e numerose richieste professionali. Sola nell’incrollabile convinzione di dover rimanere per condividere il dolore e il pericolo del popolo in guerra. Più volte nelle lettere comunica la sua decisione di rimanere: “…se si abbandona in questo momento le gente che è in estremo bisogno, – scrive – tutta la nostra testimonianza cristiana viene a mancare”. Sola anche spiritualmente, perché privata quasi totalmente degli aiuti che era solita trovare nelle pratiche religiose comunitarie. Sola in un delicatissimo processo di maturazione che la porta a confidare unicamente in Dio. Sola. Eppure – sono ancora parole sue –  avverte la presenza del Signore, una presenza – cito – “concreta anche se misteriosa. Sparano, ma Lui è con me. Sono nei pericoli di ogni genere, ma non sono sola. Apparentemente, sembro completamente abbandonata, ma Lui con infinita delicatezza trasforma per me ogni cosa in grazia.”
“Signore tu sei il mio pastore (…) non manco di nulla…” sono le sue  ultime  parole, giunte alla infermiera Rina dopo la sua morte.
Non era sola quando soldati mercenari europei, abbruttiti dalla guerra, le sparavano e la lasciavano morire dissanguata, sordi alle sue invocazioni d’aiuto.

Era l’alba del  6 luglio 1979

Maria Cavazzuti