Madagascar: i segni della presenza di Dio tra noi

«Perché questa generazione chiede un segno? In verità io vi dico: a questa generazione non sarà dato alcun segno». Con queste parole si è concluso il vangelo della messa missionaria mensile, celebrata nella parrocchia dei santi Faustino e Giovita lunedì scorso. È un messaggio duro, quello che ci consegna Gesù: non c’è alcun segno, senza la disponibilità del cuore. In altre parole, i segni dell’azione di Dio tra gli uomini si riconoscono solo con occhi nuovi. Dio ci circonda di segni, ma vederli dipende da noi. Senza gli occhi della fede, non ci è dato alcun segno; ma tutto è segno, con gli occhi della fede. Non occorre quindi chiedere un segno dal cielo, ma uno sguardo rinnovato dall’amore. La storia dei cristiani è una staffetta di persone che hanno guardato la realtà diversamente, con gli occhi spalancati dall’incontro con Gesù. Ciascuno di noi è chiamato a partecipare. Questo Giada lo ha capito, nel tempo che ha trascorso ad Ampasimanjeva in Madagascar, come missionaria della diocesi di Reggio Emilia. La testimonianza che ci ha dato dopo la messa è stata proprio una galleria di incontri che cambiano lo sguardo: e tutto diviene segno della presenza di Dio tra noi.
Una casa accogliente, una bambina raccolta, un cammino comune. Con questi tre segni provo a riassumere la ricchezza di quello che Giada ci ha raccontato. Prima di tutto una casa accogliente. L’ospedale di Ampasimanjeva spunta improvvisamente, nella foresta del sud dell’isola, al termine del tragitto di quattordici ore che lo separa dalla capitale. Quattordici ore in cui si susseguono il rosso della terra, il verde del bosco – puntellato di fiori coloratissimi –, il blu del cielo. Poi, su alcune colline, compare l’ospedale, circondato dalle casupole degli operatori sanitari e della comunità di sorelle della carità. I tetti sono di ravenala, la palma endemica dell’isola. È in questa comunità sperduta – spesso non compare nemmeno sulle cartine geografiche – che Giada ha trascorso il suo anno di missione. Dalla fine degli anni sessanta l’ospedale è gestito dalle Case della carità di Reggio Emilia, che da allora collabora con la diocesi di Fianarantsoa. Da più di cinquant’anni suore, laici e presbiteri italiani e malgasci collaborano insieme per prendersi cura delle diverse necessità dei malati. Per il resto, la vita della comunità è molto semplice: si mangia insieme, si prega insieme, si gioca insieme, si fa servizio insieme. Giada sente risuonare in questo le parole del salmo: ecco com’è bello e soave che i fratelli vivano insieme. In questa vita semplice – semplicissima – lei ha trovato il suo posto, ha riconosciuto di essere finalmente a casa. Il suo cuore ha potuto esclamare: quanto sono amabili le tue dimore, Dio degli eserciti! Sì, perché dove c’è questa condivisione, non si può non riconoscere di abitare alla presenza di Dio, non si può non sentirsi visitati da lui. E Giada, da prima accolta, è divenuta parte di quella comunità accogliendo altri, ognuno col suo dono. Ecco quindi il primo segno: una casa accogliente in cui ognuno può abitare, con il suo piccolo o grande contributo, che diviene luogo della presenza di Dio.
Il secondo segno è una bambina raccolta. Nel sud del Madagascar, se una donna partorisce due gemelli, è costretta ad abbandonarne uno dei due in foresta, consegnandolo ad una fine certa. È un’usanza difficile per noi da comprendere, che tuttavia resiste. Decidere di tenere entrambi i bambini significa inimicarsi la propria famiglia, quando non tutto il villaggio. Ancora si fatica a cancellare questa pratica, nonostante i tentativi di sensibilizzazione. La comunità di Ampasimanjeva tenta allora di dare una risposta concreta al problema: se dovete abbandonare il bambino, non lasciatelo in foresta, ma portatelo da noi. È per questa ragione che la Casa della carità accoglie di frequente bambini appena nati (sette solo nell’anno in cui Giada ha abitato lì). In più, nei pressi dell’ospedale si raccolgono spesso i malati e i loro parenti. A più riprese si affacciano alla porta della comunità per chiedere qualcosa. Per raccontare la situazione, Giada di nuovo si appoggia alla Parola di Dio, laddove Gesù promette: se lascerai la tua casa, i tuoi fratelli, i tuoi genitori nel mio nome, riceverai cento volte tanto e la vita eterna. Questi piccoli bambini sono davvero figli regalati da Dio, come la piccola Noedine, raccolta proprio la vigilia di Natale, che rende così legate la vita e la fede.
Il terzo segno è un cammino comune. Il progetto di Ampasimanjeva nasce dal gemellaggio tra la diocesi di Reggio e quella di Fianarantsoa, a cui si è aggiunta recentemente la diocesi di Modena, con la presenza di Emanuele, Maria Teresa e la piccola Ludovica Toky. Questa collaborazione, che vede l’impegno di consacrati e di laici, ci ricorda che l’annuncio del Vangelo e la cura del prossimo hanno senso ed efficacia solo se condivise. Con le parole di Henri Coudré, così care al nostro centro missionario, ci ricorda che «siamo poveri gli uni degli altri». Non è più il tempo per esperienze solitarie di Chiesa, non è più il tempo per guardare dall’alto in basso chi è lontano da noi. Nel tempo che viviamo, l’unica possibilità è prenderci cura insieme gli uni degli altri.
Un ultimo segno occorre raccontare, un segno difficile da rinchiudere in poche parole: la luce negli occhi di Giada, che già tradisce il desiderio di un ritorno, la nostalgia di chi ha trovato il proprio posto e attende solo di ritornare a casa.