Perché una clarissa parte per la missione?

Alla fine del mese di aprile, Isabella, suora di clausura nel monastero di Fanano, partirà come missionaria per il convento di Scutari, in Albania. La sua scelta fa nascere tanti interrogativi. Perché partire come missionaria, se, di fatto, si tratta «semplicemente» di spostarsi da una clausura all’altra? La vita di una clarissa non si riduce alla preghiera, rendendo indifferente il luogo in cui nel concreto ci si trova? Carichi di queste ed altre domande, noi giovani del centro missionario siamo partiti per Fanano, per ascoltare direttamente da lei le risposte. Isabella ce le ha fornite con il suo stile, mescolando parole semplici, risate di gusto, riflessioni germogliate nel tempo, motivazioni custodite nel cuore e condivise con le sue sorelle.

Perché una clarissa parte per la missione? Siamo abituati a pensare ai conventi di clausura come luoghi fuori dal tempo e dallo spazio, come rifugi sicuri dal mondo. In realtà, sono sempre radicati un territorio. Certo, c’è un nucleo originario, che è lo stesso in ogni convento, ma poi ognuno prende fattezze diverse, a seconda di dove è situato. Come suggerisce il mistero dell’incarnazione, «ogni vocazione ha una sua geografia». Anche la preghiera, che è universale, si colora delle storie, delle vite che la attraversano. Questa inculturazione si vede pure nel concreto: l’abito delle clarisse di Scutari è lievemente diverso, per evitare di confondersi con l’abito tradizionale delle donne musulmane, così come sono diversi gli spazi, perché le grate che siamo abituati a vedere in Italia rievocherebbero le sbarre delle prigioni del regime comunista, che ha dominato l’Albania fino agli anni novanta.

E perché proprio in Albania? Per rispondere a questa seconda domanda, bisogna conoscere la storia del luogo in cui sorge il convento delle clarisse di Scutari. Il monastero era dei frati francescani, ma fu sequestrato durante gli anni del comunismo, per trasformarlo in una prigione. Lì, le vittime del regime venivano torturate e processate sommariamente, prima di essere fucilate o spedite nei campi di lavoro. Un luogo carico di sofferenza e di violenza, che però racconta anche storie di solidarietà, di fedeltà, di comunione tra religioni diverse – nelle celle si trovano ancora i graffiti raffiguranti mezzelune e croci, di moschee e di chiese – nella preghiera, nella resilienza, nella morte. Oggi il luogo è abitato dalle clarisse, che pregano e vivono semplicemente, volendosi bene. «La piccola e luminosa testimonianza delle sorelle è questo: che è possibile stare insieme, anche tra culture diverse, e volersi bene». Dopo cinquant’anni di presenza del regime comunista il popolo albanese si risveglia oggi come da un coma. E la fase di riabilitazione è ancora lunga, perché tanti sono i conflitti e le ferite ancora aperte. Il contributo delle clarisse è un insieme di amicizia, vicinanza e preghiera.

Isabella ha incontrato queste storie prima nelle parole di un frate, poi di persona, recandosi in Albania per un’esperienza di un anno. L’impatto con questa sofferenza non l’ha allontanata, ma l’ha piuttosto avvicinata. E non si tratta di compassione a basso prezzo, paternalistica. Piuttosto, con le sue parole, «mi sento scalcagnata anche io, tutte le cose che ho visto lì me le sento dentro anch’io: la miseria, l’indolenza, le tante contraddizioni che ci sono e contemporaneamente le tante cose molto belle. Non c’era nulla che mi stupisse. Dovunque andassi mi sentivo proprio a casa: mi sembravano posti che avevo già visto, che mi portavo dentro». In qualche modo, le storie del popolo albanese – le sofferenze, le morti, le risurrezioni – erano già seminate nel cuore di Isabella, la attraversavano, al punto da potercisi specchiare, persino riconoscere. E questo ha davvero qualcosa di miracoloso, se vivi da vent’anni in un convento disperso nell’Appenino modenese. Ma Dio è così: sa seminare sogni nel cuore in modo totalmente inaspettato.

Pietro Barani