Perché mandare giovani in missione, perché andarci?

Lavorando nel centro missionario, capita spesso di imbattersi nella domanda: perché mandare giovani in missione, per esperienze lunghe o brevi? Il quesito prende diverse forme e colori, ma si ripropone sempre uguale nella sostanza. Alla base sta la convinzione che, in fondo, c’è bisogno di forze anche qui, anche qui ci sono situazioni che meritano attenzione (a volte con qualche sfumatura più polemica: si sta riducendo la proposta cristiana al volontariato, si guarda solo all’impatto emotivo del viaggio, eccetera eccetera). Ora, le risposte alla domanda sono molteplici, alcune anche teologicamente molto valide, perché, con buona pace di tutti i detrattori, una Chiesa senza missione – semplicemente – non esiste. Le comunità cristiane nel mondo ci sono oggi solo perché qualcuno si è premurato di partire da un piccolo paese del Medio Oriente per arrivare al cuore dell’Impero. Ai primi cristiani pareva di non essere fino in fondo contenti senza la condivisone dell’incontro salvifico che avevano avuto col Risorto: quello che abbiamo visto, udito, toccato del Verbo della vita, noi lo comunichiamo a voi, perché la nostra gioia sia piena (cfr. 1Gv 1). A questa motivazione di partenza, oggi se ne aggiunge una di ordine pastorale. Nel tempo in cui diciamo che la Chiesa deve riscoprirsi missionaria, è quanto mai indispensabile che noi, cristiani d’Occidente, ci rimettiamo alla scuola delle chiese di missione, più snelle e più direttamente improntate all’annuncio. In questa dinamica, favorire gli scambi tra le chiese è quanto mai utile, non solo per preti e religiosi. Ma a queste due ragioni di ordine teologico e pastorale, vorrei aggiungere qualcosa di più personale.

Nella mia camera, appeso alla parete, sta un pannello di legno scuro. Sopra, un intreccio di fili bianchi compone la figura dell’Africa, sorretta da tanti chiodini. A fianco compare la scritta: «Share your dream with me». Il pannello è un regalo che Maria Teresa ha fatto a mio fratello Emanuele, in occasione di non so più quale anniversario. Anche adesso, che si sono sposati, rimane nella mia camera, come un reperto del tempo in cui Manu viveva con noi (uno dei tanti, va detto). Vedendolo, penso a Manu e la Terri, che adesso sono con la loro bambina in Madagascar. Questa estate ho avuto la fortuna di andarli a trovare, per circa tre settimane. Il Madagascar è una terra particolare, di cui mi hanno colpito moltissime cose. Ma tra tutte, una vorrei raccontare.

Durante la mia permanenza, un sabato siamo stati a pranzo in un hotely gasy, un piccolo ristorante di strada, gestito dal marito di una delle infermiere dell’ospedale. Sono due ragazzi giovani, con un figlio nato lo scorso dicembre. Lui faceva il fotografo, ma l’ha seguita fino ad Ampasimanjeva, nel folto della foresta, e si è dovuto rimpiegare in qualche modo. A pranzo, assieme a me, Manu, la Terri e la piccola Ludovica Toky, c’erano Debora, che vive con loro da qualche mese, e la dottoressa Hortense. In assenza del marito, ha provveduto a noi proprio l’infermiera, con il piccolo Elon in braccio. Ci è stato servito il piatto tipico del Madagascar: riso e pietanze, vary sy loka. I condimenti del giorno erano carote, patate, cipolle e un buonissimo pollo allo zenzero. Al termine del pranzo, ci siamo fermati a chiacchierare (ovvero: loro chiacchieravano, io osservavo, non conoscendo il malgascio). Nel frattempo ha iniziato a piovere, e il ticchettio si è fatto via via più intenso sul tetto di lamiera. Dovete sforzarvi e immaginarvi la scena. L’odore del riso e del fumo delle braci, le gocce d’acqua sul tetto, la strada di polvere rossa che diventa di fango, ma soprattutto le chiacchiere italo-malgasce. La scena è dominata da due ragazze, due giovani mamme, con in braccio i loro figlioletti. Ludovica ha gli occhi azzurri e la pelle bianchissima, Elon ha gli occhi scuri e un colorito nocciola. Si guardano curiosi, lui pare intimorito e deforma la faccia in un’espressione buffa. Nel frattempo le loro mamme chiacchierano spensierate. Dall’altre parte del tavolo sto io, spettatore partecipe, intento a finire il mio piatto. La scena mi si è piantata nel cuore. Provo a spiegarvi il perché, anche se è difficile ancora oggi, a mente fredda. Quello che avviene in me è lo scontro tra quello che ho imparato sul mondo e quello che vedo ora, davanti a me. Sì, perché a ventisei anni lo so che quello che ho davanti agli occhi non è normale: due famiglie simili, una italiana e una malgascia, che condividono tranquille un pasto su una strada polverosa del sudest del Madagascar. Assolutamente no: non è normale tutto ciò: mio fratello e sua moglie non sono normali, hanno lasciato il lavoro per andarsene due anni in cerca di chissà che cosa, e in più hanno gestito una gravidanza e un parto lontani dalle nostre cliniche europee: per qualcuno sono pazzi, per qualcun altro degli eroi, ma di certo non sono normali; non è normale nemmeno Francesco, direttore del centro missionario, che li ha spediti senza riserve; ma forse non sono normale nemmeno io (su questo molti miei amici concorderebbero), che ho la fortuna di fare da spettatore. Ma vedete: in quel momento, vedendoli, a me sembra tutto perfettamente normale. Anzi, mi sembra proprio che le cose potrebbero e dovrebbero andare così. Osando qualcosa di più, mi verrebbe da dire che le cose Dio le ha sognate così. La scena che ho davanti agli occhi, per me, è il regno dei cieli che prende forma nel piccolo e nel quotidiano. E davanti a al regno dei cieli, il cuore arde di vita. Ti sembra di fare l’esperienza dei discepoli davanti alla trasfigurazione, e vorresti davvero che il momento duri per sempre, vorresti rimanere sul monte. Poi ti tocca di scendere, di ritornare, ma quell’immagine rimane nel cuore. E assieme all’immagine, ti resta la convinzione che il regno dei cieli davvero è possibile in questo mondo, davvero lo si può osservare, lo si può udire, lo si può gustare. E – ancor più importante – lo si può annunciare, perché anche altri facciano quell’esperienza, e la nostra gioia, in questo modo, sia piena.

Perché quindi mandare giovani in missione, perché andarci? Io a visitare le terre di missione ci sono stato, e non vedo l’ora di tornarci. Ogni volta qualcosa ti si pianta nel cuore. Per me è come se Dio seminasse un po’ di quel regno dei cieli, che è così visibile in questi posti sperduti, così mascherato e nascosto qui. E sono sicuro che qualcuno di questi semi, alla fine porterà frutto.

Il pannello della Terri dice: share your dream with me. Guardarlo mi ricorda che i sogni diventano più belli, se condivisi. C’è un contagio di sogni, che inizia da Dio e può toccare, a catena, tutti. A noi spetta il compito di lasciarci contagiare da quel sogno, farlo nostro, diventarne portatori. Chissà mai che in questo modo, sulle orme di quel sogno, non capiti – addirittura – di imbattersi nel regno di Dio, di entrarvi, di costruirlo insieme.