Il 5 aprile si è spento PADRE CHICO (don Francesco Capponi).
Nella foto qui a fianco nel 1968 a Goias, durante il primo matrimonio celebrato in Brasile.
A seguire, la parte di una lunga lettera scritta nel settembre 2008 a testimonianza della sua chiamata missionaria.
TUTTO PARTE NEL 1967 DALLA PARROCCHIA DI SAN FAUSTINO (MO) … venne a cercarmi don Aldino Luppi, parroco di San Faustino, per invitarmi a fargli da coadiutore e cappellano. Don Aldo aveva già combinato tutto con l’arcivescovo, ed era ovvio che non avrei potuto rifiutare; così, quando venne a cercarmi di persona, fui felice del suo gesto, dettato unicamente dalla sua profonda sensibilità umana e dal grande rispetto nei miei confronti. Don Aldino Luppi era stato il cappellano del Garofalo, la borgata di Vignola in cui abitavo da bambino, prima di entrare in seminario. Ma per me rappresentava molto di più: era stato il mio “eroe” e modello, colui che aveva acceso in me la speranza di ricevere la vocazione. Lui ne era consapevole, e credo che mi avesse cercato per questo. Ai tempi in cui mi tenne come cappellano a San Faustino, però, le sue rinomate capacità di iniziativa, il carattere forte e la spiccata personalità mi mettevano molto in soggezione. Spronato dal suo esempio, fui costretto a superare me stesso e le mie fisime. Fu così che, spesso anche con sofferenza, imparai a lavorare sodo. La parrocchia era molto impegnativa e lui non mi dava tregua. Da subito, accanto a lui, mi resi conto di quanto fossero evidenti i miei limiti come sacerdote: ero giovane e sembravo ancora più giovane, avevo una personalità fragile che mi portava a invidiare, in senso buono, il mio maestro. Inoltre, non avevo nessuna esperienza della vita reale perché avevo passato tutto il tempo della mia vita, dopo gli undici anni, chiuso in seminario; in mezzo alla gente ero timido, ingenuo, impacciato e spesso anche spaurito. Possedevo buone nozioni di teologia e una spiritualità che avevo sempre ritenuto valida, ma con don Aldo mi resi conto assai presto di quanto la mia formazione fosse astratta, lontana dalla gente, priva di slancio creativo e autentico coraggio. Don Aldo mi aiutò a comprendere i documenti del Concilio man mano che venivano pubblicati, e a tradurli in linguaggio di tutti i giorni. Mi mostrò il progetto della Chiesa nella sua luce più coraggiosa e tesa verso il futuro. Mi insegnò, in parte, anche a pregare: ogni volta che poteva, mi chiamava a pregare l’ufficio divino assieme a lui. Mi aiutò, per quanto gli fu possibile, a controllare le emozioni e a riflettere sull’azione pastorale: non era mai stanco di ragionare e lanciare proposte e idee nuove su ogni cosa che si faceva. Capii di avere molto da imparare anche dal suo modo di predicare, così diverso dalle mie omelie che spesso criticava definendole troppo aeree o troppo libresche. Lo stile che aveva nel trattare con i giovani e gli adulti, il suo modo vivo di partecipare alle vicende personali e familiari dei parrocchiani mi impressionarono profondamente. Era davvero il pastore che gioisce con chi gioisce e soffre con chi soffre.
Dal suo esempio ricevetti anche lezioni di spirito missionario. Con i giovani dell’Azione Cattolica organizzava ogni anno una missione in Europa, tra le famiglie degli operai italiani che lavoravano nelle miniere del Belgio. Facevano la Pasqua visitando le famiglie dei più poveri degli italiani, gli emigrati cui toccava il lavoro più duro. Io non potei mai prendere parte a quei viaggi perché, ovviamente, in assenza del parroco il cappellano era ancora più necessario: ma la preparazione della missione, le riflessioni e racconti che ne seguivano e che io carpivo al volo nei circoli della parrocchia, mi scuotevano e mi facevano sussultare. Erano una scuola pratica di scelta dei poveri e di evangelizzazione concreta, che si realizza sempre meglio nelle situazioni più estreme.
Don Aldo non perdeva occasione per portare i parrocchiani, e anche me, a contatto con esperienze di grande valore missionario; fu proprio con lui, e con il gruppo di giovani e adulti di San Faustino, che ebbi occasione di conoscere da vicino i Focolarini di Loppiano, Nomadelfia, la comunità di don Zeno a Grosseto, e la Piccola Famiglia dell’Annunziata a Monteveglio, la comunità di Dossetti. Partecipai di persona, assieme ai giovani del mio gruppo, a un campo di raccolta del movimento dell’Abbé Pierre, l’apostolo francese dei carcerati. Conobbi l’esperienza dei Piccoli Fratelli del Vangelo e, colpito da quell’incontro, mi dedicai ad approfondire con la lettura la spiritualità e l’ideale dei padri ispiratori della comunità, Charles de Foucauld e il discepolo René Voillaume, fondatori dei Piccoli Fratelli di Gesù.
Ho trascorso a San Faustino solo tre anni, ma quella parrocchia per me è stata una scuola fondamentale. Facevo quel poco che sapevo fare, ma imparavo molto e si rafforzava in me il fuoco di una vocazione alla missione che traeva linfa dall’attenzione alle cose davvero essenziali: la pratica di Gesù, il Vangelo, l’amore verso i più poveri, la ricerca di un’ecclesialità che fosse testimonianza di comunità-comunione fraterna, anziché struttura fredda e formale.
Lo spirito missionario di quegli anni catturò ben presto anche un altro importante personaggio della nostra parrocchia. Pietro Marchiorri, uno dei più brillanti delegati di Azione Cattolica a San Faustino, apprezzato nelle attività con i ragazzi e nella catechesi, decise infatti di entrare nel neo-seminario per l’America Latina di Verona, con l’intenzione di farsi prete e partire per il Brasile.
Credo che anche la vocazione di Pietro sia stata frutto dell’ambiente parrocchiale, imbevuto della spiccata sensibilità missionaria della comunità di San Faustino. Questo lo dico perché quell’ambiente ha segnato anche la mia esperienza. Non sono in grado di ricordare tutti i nomi, ma non posso non ricordare che l’esempio e l’amicizia, e forse anche la pazienza, di persone più mature di me come Fontanesi, Palazzi, Francesco di via Buonarroti, Costantini e Paola, o di giovani come Ciccio, Claudio Belelli, Alex Marchiorri, Orlandi, o donne come le signorine Lugli, mi hanno dato molta forza e mi hanno accompagnato per molti anni anche dopo la mia partenza per il Brasile. So di commettere un’ingiustizia, perché dovrei citare molti altri ma la mia memoria ormai in decadenza non riesce a decifrare i ricordi.
3 – La mia partenza.
Nei primi mesi del ‘67 l’arcivescovo Amici avvertì il clero che tre dei preti modenesi che erano andati a Itaberaì si apprestavano a ritornare a fine anno, e che bisognava trovare chi li sostituisse. Era giunta per me l’occasione tanto attesa. Prima di propormi però mi incontrai con alcuni dei miei compagni di scuola, per sondare chi fosse disposto a venire con me: non osavo offrirmi con il rischio di partire solo. Trovai subito sostegno in don Isacco Spinelli, che era cappellano nella vicina parrocchia della Madonna Pellegrina. Di comune accordo, ci presentammo all’arcivescovo perché disponesse di noi come volontari. Monsignor Amici ci invitò a fare il corso di preparazione e poi partire.
Il corso, che si svolgeva a Verona e a Roma, aveva inizio in ottobre. Io, nell’attesa, continuai serenamente il mio lavoro in parrocchia. Don Aldo mi interrogava spesso sulla mia decisione, e la metteva in discussione, certamente con l’intento di sondare la serietà e fondatezza del mio proposito. Dopo avermi messo alla prova, di solito esprimeva sostegno e ammirazione, e qualche volta scherzando si dichiarava persino invidioso di me: diceva di avere molta voglia, anche lui, di fare un’esperienza di evangelizzazione in condizioni meno borghesi di quelle che si vivevano nella nostra realtà cittadina. Nel frattempo ci comunicarono che il vescovo di Goiàs, Abel Ribeiro, era morto. Al nostro arrivo non avremmo più trovato il vescovo che monsignor Amici aveva conosciuto durante il Concilio Vaticano II e che anche noi avevamo già incontrato perché era venuto di persona in seminario a parlarci della difficile situazione della sua diocesi. La scomparsa di monsignor Abel avrebbe inoltre accelerato il ritorno in patria del primo gruppo dei nostri preti partiti nel 1964.
In autunno, don Isacco e io facemmo il corso di preparazione alla missione, che si svolgeva un mese a Verona e uno a Roma. A Verona, nel seminario per l’America Latina, ebbi occasione di parlare spesso con Pietro Marchiorri e si consolidò tra noi un’amicizia che è durata fino alla sua morte prematura. Il modo di lavorare e lo spirito dell’equipe di insegnanti e orientatori del seminario di Verona erano entusiasmanti. Quelle persone mettevano davvero in pratica un nuovo modo di essere Chiesa, uno stile evangelico che non avevo mai incontrato in nessuno prima di allora. Pochi giorni dopo la fine del corso partimmo. A quei tempi non si tergiversava: non sapevamo nemmeno dove eravamo destinati, conoscevamo a malapena il nome Itaberaì e per farci un’idea di dove saremmo finiti potevamo contare solo su alcune descrizioni e racconti. Spirito missionario, allora, era inteso anche come disponibilità a fare un salto nel buio, senza domandarci se ci saremmo trovati bene o se ci avrebbero ricevuti con affetto. Semplicemente, il 7 dicembre 1967, salimmo sulla nave “Giulio Cesare”, che era il mezzo di trasporto più economico. Non avevamo denaro, ma non ci mancavano un paio di scarpe e qualche vestito. In ogni caso, le nostre condizioni economiche erano abbastanza rispondenti all’insegnamento del Vangelo.