Ferita e cicatrice, che si voglia o no una implica quasi sempre l’altra.
La ferita è una lesione traumatica, una spaccatura di un qualcosa che prima era un tutt’uno, e a volte necessita di molto tempo prima che si sani completamente.
La cicatrice è il segno che rimane nel luogo di una ferita rimarginata a testimonianza che è stato vissuto un trauma e che lì mai tutto tornerà esattamente come prima.
Spesso non si nota a colpo d’occhio, a volte è ben nascosta, poi con il tempo, eccola, ti chiama l’attenzione quel particolare che fino a poco prima ti era completamente ignoto.
Sono più di sette mesi che viviamo a tempo pieno la realtà del Vicariato di Sucumbíos e sta diventando sempre più evidente quella che è stata una sua grande ferita del recente passato, il cui segno è ancora vivo e visibile.
Nel 2010, a Mons. Gonzalo López Marañón, vescovo di Sucumbíos e appartenente all’ordine dei Carmelitani Scalzi, dopo 40 anni di lavoro pastorale a fianco degli ‘ultimi’ e in una Chiesa costituita da moltissimi laici impegnati attivamente, viene chiesto di lasciare il Vicariato. La motivazione si legge dalla Carta del Cardinale Ivan Dias: “La visione portata avanti non è stata sempre conforme con l’esigenza pastorale della Chiesa in quanto tale”, in poche parole una Chiesa troppo coinvolta nel sociale. Ad organizzare nuovamente il Vicariato viene inviata da Roma la congregazione degli Araldi del Vangelo, un gruppo dallo stile marcatamente ortodosso (praticamente anticonciliare), gerarchico e conservatore. In quegli anni questo cambio radicale generò divisioni e forti scontri di piazza tra queste ‘fazioni’ di fedeli, tanto che Roma decise di intervenire nuovamente rimuovendo dal Vicariato sia gli Araldi del Vangelo che i Padri Carmelitani.
Solo negli ultimissimi anni, nel 2019, Papa Francesco dispone il commissariamento degli Araldi e, nel 2023, i Carmelitani vengono richiamati nel Vicariato di Sucumbíos a furor di popolo per tornare a svolgere il loro storico servizio pastorale.
Tutt’ora ci è abbastanza evidente, tanto nelle riunioni di Vicariato (a cadenza mensile) quanto dalle chiacchiere informali con i tanti missionari che incontriamo quotidianamente, che questa spaccatura è ancora viva anche se bisbigliata sottovoce; risulta chiara la compresenza di una Chiesa affezionata più alla gerarchia e ai rituali e allo stesso tempo una più informale e vicina alle persone, dallo stile appunto più ‘carmelitano’.
Si percepisce un forte desiderio di un ritorno al passato quando si seguiva il motto: “Una Chiesa che cammina su due piedi: uno nella spiritualità e l’altro nel sociale”, tuttavia è presente una vena di malinconia e rassegnazione nella consapevolezza che oramai è davvero difficile (se non impossibile) tornare alla Chiesa di Gonzalo. Quello che stupisce, però, è l’enorme sforzo da parte di alcuni di voler trovare nuove vie cercando di tenere al centro le persone.
Per quanto ci riguarda abbiamo la fortuna di camminare con alcuni missionari, molti di questi di lungo corso, che lavorano instancabilmente per dare un senso vivo e reale agli stimoli che sono emersi dal Sinodo dell’Amazzonia con Papa Francesco: “una Chiesa dal volto indigeno” che si manifesta con tante piccole azioni e processi che spesso nascono ‘dal basso’.
Uno di questi percorsi a cui stiamo partecipando con molto entusiasmo e curiosità è quello che stanno portando avanti le suore dell’ordine delle Lauritas con il coinvolgimento di diversi catechisti indigeni di nazionalità Kichwa: la stesura di un manuale di liturgia della parola inculturata, ossia che tenga conto e valorizzi aspetti della cultura dei popoli nativi. Uscito lo scorso anno il primo volume dell’attuale anno liturgico (ciclo C), quest’anno stiamo lavorando insieme per mandare in stampa a breve il secondo volume sul prossimo anno liturgico (ciclo A).
Questo lavoro vuole avere come obiettivi sia quello di dare un volto più indigeno alla Chiesa, come esortava Papa Francesco, che quello di un maggiore coinvolgimento delle stesse comunità indigene nel loro cammino di Fede. Qui i missionari, vista anche l’enorme difficoltà nel seguire in maniera costante le comunità a causa delle grandi distanze, stanno lavorando nella responsabilizzazione sempre maggiore della figura del catechista che dovrebbe avere il compito di accompagnare nel percorso di Fede le comunità cristiane indigene in assenza di sacerdoti e/o missionari. Per fare questo la creazione di un manuale in doppia lingua kichwa/spagnolo vuole aiutare le comunità a fare proprio il rito liturgico (che altrimenti risulterebbe culturalmente troppo distante) e al tempo stesso a non perdere le proprie radici (la globalizzazione sta demolendo secoli di saggezza indigena e tanti giovani si rifiutano di parlare le lingue d’origine). Perciò si è giunti alla creazione di un rito liturgico inculturato, approvato dalla Santa Sede, in cui si arricchisce la celebrazione con la lettura di un mito della cultura indigena tradizionale che si affianca al Vangelo rafforzandone il messaggio centrale. Allo stesso modo viene inserito come atto penitenziale il momento della limpia (ossia pulizia), un momento di profonda connessione in cui si viene ripuliti dai propri peccati ed energie negative. Tutto questo, con anche l’inserimento di canti in Kichwa, vuole rendere la liturgia più comprensibile e radicata nella realtà della comunità.
Per noi è davvero un’immensa opportunità poterci immergere in tutta questa saggezza ancestrale, leggere i miti, tentare di comprenderne i significati e i messaggi che gli anziani volevano trasmettere alle comunità e abbinarli ai Vangeli della domenica.
Scriviamo queste righe, cercando di racchiudere in poche parole, esperienze di vita che speriamo davvero di poterci portare anche a casa, a Modena. Tante suggestioni e spunti di riflessione che stiamo metabolizzando con il tempo a disposizione ma anche grazie al confronto con tanti missionari. In particolar modo abbiamo avuto la fortuna di partecipare dal 9 al 13 di settembre all’Assemblea Nazionale delle Missioni (CEMINA) organizzata dalle Opere Missionarie Pontificie in Ecuador e conclusasi con il Giubileo Missionario nazionale. Una settimana di incontro e formazione proprio sulla missione e sullo stile del processo evangelizzatore; padre William Segura, formatore della settimana, ci ricorda: “La missione è un invito ad uscire e andare. È uno stile di vita e non è solo qualcosa di spirituale, ma ha anche una forte dimensione sociale”. Allo stesso modo anche Mons. Andrés Carrascosa Coso, Nunzio Apostolico in Ecuador, in occasione dell’omelia del Giubileo esorta nuovamente: “Questa Fede e questo Vangelo non possono rimanere solo parole: la missione non è solo per fare contemplazione, ti porta anche ad azioni concrete: attenzione ai poveri, vicinanza alle famiglie ferite, accompagnamento alle tante persone che soffrono e compassione negli spazi laddove Dio ti manda, ossia nel mondo concreto”. Ci fa presente poi che il cristiano deve uscire, uscire da se stesso. Una Chiesa in uscita, che va all’incontro con l’altro.
E citando Papa Leone XIV conclude: “Non c’è cristiano senza missione e non c’è missione senza Cristo. Non tutti saremo chiamati ad andare in Africa in missione, però tutti siamo chiamati ad essere missionari là dove viviamo”.
Questo essere Chiesa che cammina su due piedi, siamo sicuri, farebbe sorridere il cuore anche a Mons. Gonzalo (morto poi missionario in Angola nel 2016) e traccia cammini nuovi verso la riconciliazione, dove anche le ferite più profonde possono via via essere risanate lasciando lo spazio a cicatrici che si vedono ma che non fanno più male.
Eleonora e Davide
Lago Agrio, provincia di Sucumbìos, 24/09/2025
a seguire alcune foto…..
- equipe stesura manuale inculturato e condivisione con giovani cmd in visita a Lago Agrio
- equipe stesura manuale inculturato e condivisione con giovani cmd in visita a Lago Agrio
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- pellegrinaggio Giubileo Missionario in Ecuador
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- settimana di formazione 9-13 settembre 2025, Riobamba
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- delegati vicariati zona Amazzonia
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