Prima lettera di Alice dal Madagascar

Nuovi inizi, nuovi incontri, nuove domande (a qualche latitudine più a sud)

Carissime amiche, carissimi amici,
eccomi qua con la prima lettera!

Sono passati due mesi dal mio atterraggio su quest’isola, e le cose da raccontare sarebbero già tantissime, ma tenterò di contenermi per il mio e vostro bene (questa lettera rischia di rimanere nelle bozze per settimane sennò).
La quasi totalità del mio primo mese qui l’ho trascorsa con dei mitici campisti di Reggio Emilia, ed è stato bello poter condividere con loro il mio inizio qui, lasciarsi toccare dalla realtà circostante insieme, confrontandosi sulle fatiche e sulla bellezza che questo posto ha da offrire. In particolare è stato tranquillizzante poter condividere la diversità e l’estraneità, e la loro presenza mi ha garantito una lenta immersione nella vita qui, l’impatto iniziale della mia condizione di “vazaha” (ndt: straniero) è stato stemperato e attutito da quei dieci ragazzi che, anche se sconosciuti per me, portavano con loro una sorta di “bolla italiana” dalla quale iniziare a tastare piano piano il mondo a noi circostante.
Con il campo di Reggio ho avuto modo di esplorare un pochino il Madagascar, e ho potuto constatare che nessuna foto potrebbe mai rendere giustizia allo splendore dei luoghi che ho visto. Qui la natura la fa da padrona, molto più che in Europa, e poter osservare immense distese di verde è per me stupefacente, dato che sono abituata ad essere circondata da asfalto e cemento. Non conosco abbastanza aggettivi per descrivere quanto sia bella questa natura talmente rigogliosa che sembra respirare, soprattutto quando si ammanta di pioggia…

Una volta finito il campo è stato poi il momento di iniziare a studiare la lingua, e per una serie di questioni logistiche che sorvolerò si è svolto in modalità online da Ampasimanjeva, ovvero, il luogo in cui abiterò per i prossimi anni. Per me è stato un dono grande poter stare qui fin da subito, iniziare a conoscere il posto e le persone con le quali condividerò la vita d’ora in poi. La principale compagna delle mie giornate in questo mese è stata Judith, l’assistente sociale che lavora in ospedale nel bureau sociale. Stavo con lei per un paio d’ore alla mattina e un’oretta al pomeriggio, per staccare un po’ dallo studio, per praticare la lingua, ma soprattutto per cominciare a stare un po’ in mezzo alla gente. Judith è veramente splendida, e fin dall’inizio è stata incredibilmente accogliente nonostante le difficoltà imposte dalla barriera linguistica, che ci ha ridotte a comunicare in una strana commistione di lingue composta da italiano, francese e malgascio mescolati assieme. Lungi dal diventare un muro, questa barriera comunicativa ci ha regalato diversi momenti di risate a crepapelle, accorciando le distanze e permettendoci di sentirci a nostro agio l’una con l’altra, nonostante le diversità che avrebbero facilmente potuto metterci in difficoltà. Fortunatamente, così non è stato.
Alla porta del bureau sociale bussano diverse persone, spesso per questioni di natura economica: tanti di loro possono contare su circa 2000/3000 Ariary al giorno (al momento in cui scrivo, 1 Euro equivale a 5.240 Ariary) per l’intero nucleo famigliare, che può arrivare a contare anche 6 o 7 persone, quindi si rivolgono a Judith per sapere se c’è la possibilità di un aiuto. Judith dispone di un modulo per valutare il grado di vulnerabilità della persona, e tiene conto di diversi fattori, come il numero di componenti del nucleo famigliare, il reddito giornaliero, il livello di scolarizzazione dei componenti adulti, il tipo di lavoro svolto e la frequenza, la mancata o avvenuta scolarizzazione dei minori, l’uso di sostanze psicoattive (ecc ecc.).
Fare compagnia a Judith nel suo lavoro mi ha permesso di gettare uno sguardo, seppur breve e fugace, nella vita di queste persone. Non so come descrivervi la sensazione che si prova nello stare davanti a degli uomini e delle donne che non hanno nulla da mangiare. E non nel senso di “il frigo è vuoto”, ma nel senso di “oggi ho guadagnato 1000 Ariary, ma per comprare da mangiare per me e i miei figli me ne serve il doppio, e inoltre devo pagare le cure del mio coniuge attualmente ricoverato”. La parola che si avvicina di più alla sensazione di scambiare lo sguardo con queste persone è di sicuro inadeguatezza. Non potrebbe essere altrimenti, considerando che già solo il contenuto delle valigie con cui sono arrivata qui è di gran lunga superiore agli averi del cittadino medio malgascio. Questa non è un’esagerazione, considerando che circa l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà; e dato l’elevato costo della vita (250 gr di riso costano 900 Ariary, 1 litro di latte ne costa 3000, un uovo ne costa 1000…) non sorprende che ci sia una grave crisi alimentare e di malnutrizione.
A questo proposito mi vengono in mente le riflessioni di Freire in “Pedagogia degli oppressi”, quando contrappone l’essere e l’avere da un punto di vista esistenziale, affermando che quanto più l’oppressore ha, tanto meno è in grado di essere pienamente umano. In questi termini, mi sento incollata addosso l’etichetta dell’oppressore; pur non potendomi dire miliardaria, sono comunque piena di averi, in maniera sovrabbondante (soprattutto qui dove mi trovo). Tutte queste cose di cui sono piena mi fanno sentire inadeguata e a disagio, fuori posto rispetto a dove sono. Come se già solo la mia presenza in quanto occidentale e ricca fosse inopportuna. Chiaramente non posso cambiare le mie origini nè ciò che sono, ma spero che questi punzecchiamenti di coscienza non si affievoliscano, affinchè i miei occhi rimangano aperti il più possibile sulle ineguaglianze e le ingiustizie in ogni dove.

Il vangelo di domenica 14 settembre (Gv 3, 13-17) si è inserito nel bel mezzo di questi incontri e di queste scoperte. Mi sono inevitabilmente interrogata su che cosa si intenda per salvezza in un posto come questo. Io penso di avere un’idea più o meno chiara di che cosa sia la salvezza per me, del dono che è e che forma prende nella mia vita. Ma le cose da cui sento di essere salvata io hanno a che vedere con aspetti della vita non tangibili, con il valore di me persona agli occhi del mondo e agli occhi di Dio, con la relazione profonda d’amore che Dio ha con me e per me. Ma io ho una vita che mi consente di dare per scontati i beni materiali e la mia sopravvivenza, non un minuto della mia giornata è attraversato dalla preoccupazione della fame imminente. Non ho potuto fare a meno di chiedermi che cosa sia la salvezza per le persone che mi circondano, per quelle che vengono a chiedere un pugno di riso per un loro parente malato, per quelle che non hanno i soldi per le cure mediche e ci mettono anni a saldare un debito di 500 Ariary con l’ospedale, per le donne abbandonate che ora vivono nelle cucine dell’ospedale, per i bimbi che a cinque anni iniziano a lavorare, per gli uomini che spendono il ricavo della giornata in liquore. Che cosa è, per loro, la salvezza? Che cosa è, per loro, la vita eterna? Il regno dei cieli? Non posso dire di conoscere la risposta a queste domande, nè penso di poterla intuire o di tirare a indovinare, ma di sicuro penso di poter comprendere un pochino meglio l’origine di alcune omelie domenicali incentrate sulla ricchezza come obiettivo della vita. Dopotutto, si dice spesso che è Dio a colmare i nostri bisogni più profondi, e se noi associamo la fede e la relazione con Dio su un piano trascendentale e non solo squisitamente materiale, forse è anche perchè i nostri bisogni materiali sono già ampiamente soddisfatti. Spero comunque di avere modo in futuro di poter approfondire direttamente con le persone interessate, per scoprire che cosa significhi avere fede in un posto più in basso di qualche longitudine rispetto a casa mia, dove la vita di tutti i giorni è attraversata da preoccupazioni e questioni che denotano una lontananza ben più ampia di qualche migliaio di chilometri.

Dopo quasi due mesi dal mio arrivo in Madagascar (e circa un mesetto dal mio arrivo ad Ampa), inizio a interrogarmi su cosa significhi essere missionaria qui, ora che le giornate iniziano a seguire una routine abbastanza definita. Realisticamente continuerò a chiedermelo per tutta la durata della mia permanenza qui, e probabilmente la risposta cambierà nel corso del tempo. Qui conduco una vita ordinaria, scandita da impegni cadenzati e sempre uguali ogni giorno (circa), vedo sempre le stesse persone e gli stessi luoghi e la quotidianità inizia ad avere un aspetto famigliare nei volti delle suore, dei dipendenti dell’ospedale, della Debby, degli ospiti della casa della carità e dei passanti; nel sapore del riso, delle verdure, della carne di zebù; nei colori degli edifici, delle piante e della terra. Ora che la vita diventa abitudine e consuetudine, dovrò cercare con impegno di mettere le domande sul mio essere qui al centro delle giornate e delle relazioni. Il fatto che io mi stia già abituando alla mia vita qui un po’ mi sorprende, forse perchè andando così lontano probabilmente immaginavo grandi sconvolgimenti fuori e dentro di me, magari pensavo che ci avrei messo tanto tempo per ambientarmi in un posto che ha un aspetto ben diverso dai luoghi che ho sempre chiamato “casa”. Invece, da bravo essere umano predisposto all’adattamento quale sono, tante cose si sono depositate nel mio sguardo con naturalezza, e ora le riconosco come parti integranti della mia vita, come se ci fossero da sempre. Non ho dubbi sul fatto che i cambiamenti avverranno, arriveranno e porteranno modifiche significative nel mio modo di essere e di vivere, ma questo accadrà con il tempo, lentamente.

Speravo di finire questa lettera prima dell’inizio della scuola, invece è già passata la prima settimana… ma di questo vi racconterò nel dettaglio più avanti! Per ora vi anticipo solo che il primo giorno, appena entrata in classe, ho rotto la panca della cattedra davanti a circa 45 alunni, finendo quasi con il sedere per terra. Chi ben comincia…

Direi che per la prima lettera possa bastare così, e anzi, probabilmente mi sono dilungata troppo (giuro che mi sono trattenuta!).
Per salutarvi, vi lascio qualche foto sparsa di questi primi due mesi.

Vi mando un abbraccione fortissimo!

La vostra,
Aci