Ciao a tutti!
Dopo un po’ di tempo (troppo tempo) eccoci di nuovo qua a raccontarvi un po’ la nostra quotidianità in Madagascar e in particolare ad Ampasimanjeva, villaggio nel sud-est dell’isola dove viviamo da oltre due mesi. Per arrivarci bisogna percorrere 12 km di strada sterrata e si impiegano circa tre quarti d’ora se non è piovuto molto, se no la terra rossa malgascia diventa troppo scivolosa e si allungano i tempi. Una volta arrivati però ci si trova davanti uno spettacolo inimmaginabile solo qualche minuto prima: si attraversa il villaggio e ci si accorge della vita che c’è intorno alla strada, le persone non vivono in casa ma fuori, sempre in contatto con altri uomini per poter lavorare, giocare, riposare. E appena usciti si trova l’ospedale di Ampasimanjeva, FMA (Fondation Medicale Ampasimanjeva), un villaggio dentro al villaggio, dove vivono i dipendenti dell’ospedale, i malati in cura e la comunità di suore della Casa della Carità nella quale siamo stati accolti anche noi.
Da subito abbiamo capito di essere arrivati a casa. È stata una sensazione condivisa tra noi che non ha avuto bisogno di tante parole, è bastato uno sguardo per dirci che quello era il luogo dove speravamo di abitare prima di partire: una comunità accogliente immersa nella natura e nella vita delle persone. Ci siamo sentiti coinvolti in un “noi” che ci racchiudeva – o isika come si dice in malgascio – che era interessato a quello che pensavamo e provavamo in tutta questa abbondanza di novità, e da parte nostra c’è stato un reciproco interessamento a quella che era la vita della comunità e dell’ospedale, dove concretamente aiutiamo durante il giorno (Terri facendo la fisioterapista e Manu aiutando gli operai della manutenzione e del garage).
Vogliamo provare ora a condividere con voi qualche pensiero e qualche aspetto della quotidianità che ci hanno fatto riflettere, partendo da qualche piccola fatica per passare poi alla gioia che ci sta riempiendo.
La prima fatica con la quale saremo costretti a convivere per tutto il nostro periodo qua è l’essere vazaha (bianchi). Sembra che basti questo per avere più competenze o essere più bravi degli altri, quando non è così (in particolare chi conosce Manu saprà che di manutenzione e macchine non ne sa nulla). Purtroppo per quanto ci si sforzi di mettersi alla pari non si riuscirà mai ad esserlo del tutto, sebbene si stiano creando delle belle relazioni sia all’interno di casa che dell’ospedale.
La seconda fatica che ci interpella in prima persona è quella delle molte persone che arrivano a chiedere un aiuto fino alla porta di casa. La nostra prima reazione era sempre quella di mandarle dalle suore, che si prendono cura dei poveri del villaggio e non solo, senza mai ascoltarle più di tanto: un po’ perché ancora la lingua malgascia rimane complicata, ma anche perché non è facile stare in una relazione molto breve che finisce sempre con un domandare la risposta alle suore. Poi ci siamo accorti che a noi non era richiesto un aiuto materiale, ma solo fermarci un attimo a salutare, fare un sorriso e magari scambiare due parole capendo la metà del discorso. Dare valore a queste persone semplicemente stando accanto a loro anche se per poco tempo. Certamente poi guardare come le suore si prendono cura di loro ci è di grande insegnamento: valorizzano ogni persona facendogli magari fare qualche lavoro o ascoltando attentamente la loro storia, così da far sentire tutti importanti.
Pensando alla nostra vita qui ad Ampasimanjeva ci stiamo accorgendo di quanto poco basti per essere felici, in alcuni casi appunto basta un saluto. Stiamo scoprendo come la semplicità del nostro vivere ci renda felici, stiamo capendo che in Italia pensavamo di avere tutto, ma in realtà avevamo troppo. Troppi impegni, troppe cose, poco tempo per noi e per relazioni importanti. Qui il ritmo è completamente diverso, sia durante il lavoro che durante i pasti, momenti di comunità in cui poter esprimere le proprie preoccupazioni o farsi una bella risata. E dopo cena sedersi a chiacchierare senza dover correre sempre a riunioni o altri impegni certamente belli, ma che alla lunga ci stancavano molto. Non vogliamo dire con questo che è meglio rinunciare a tutto quello che facciamo, ma magari di scegliere con più cura e attenzione il modo in cui valorizzare il nostro tempo, e questo è un aspetto che speriamo di portarci in Italia.
Questo diverso ritmo di vita ci sta facendo scoprire anche un Dio più quotidiano. Nella frenesia delle nostre vite prima di partire era relegato forse solo nella domenica mattina a messa. Qui che la messa non c’è tutte le domeniche (il prete spesso è assente) lo stiamo però sentendo molto più vicino. È presente nei tanti gesti di cura che avvengono in ospedale, tra medico e malato, ma anche tra malato e malato, nel pregare insieme durante la giornata per fermarsi un attimo a pensare alle tante cose accadute o viste, nel guardare e imparare dalle suore come relazionarsi con un povero che chiede, nel condividere le fatiche e le gioie. Certo la gioia delle celebrazioni domenicali è coinvolgente (almeno fino agli interminabili avvisi finali, dove però si informa la comunità di tutto quello che succede in parrocchia), ma il sentire Dio come un Padre vicino o come un Fratello che cammina al nostro fianco ci riempie di stupore e gioia.
Ci stiamo accorgendo sempre più di star vivendo momenti di grazia unici che vogliamo assaporare fino all’ultimo. Siamo grati anche di poter vivere questi momenti insieme, come famiglia noi due, e con la comunità che ci ha accolti, perché nonostante le fatiche, ci sta insegnando a cambiare il nostro sguardo verso le cose, per poter essere in grado di accogliere e capire piuttosto che giudicare.
Maria Teresa ed Emanuele
Qui il video in cui Maria Teresa ed Emanuele presentano la comunità di Ampasimanjeva
https://youtu.be/iNpirjbjqnM