Dovevamo per forza tornare

“Raha misotro ranon’ny Faraony tsy maintsy miverina” – se bevi l’acqua del Faraony devi per forza tornare.

È così che ci ha salutati Tata, uno dei farmacisti dell’ospedale, al nostro rientro ad Ampasimanjeva. In questo breve proverbio c’è racchiuso per noi il desiderio che sentivamo di tornare per camminare ancora un po’ insieme ai malgasci, in particolare con tutti quelli che abbiamo conosciuto sia all’ospedale che in villaggio. Il Faraony è il fiume che costeggia la strada sterrata da dove finisce l’asfalto fino a qui e poi prosegue fino al mare, dal quale tante persone prendono l’acqua per lavarsi o cucinare. Tanti villaggi sono nati lungo il suo corso e anche noi, grazie ad un sistema di pompe e cisterne riusciamo a usare quell’acqua, e dopo averla clorata e filtrata la beviamo e a quanto pare il proverbio ha ragione: per noi questa è diventata acqua viva, acqua che si traduce in tante relazioni da vivere, e sentivamo il bisogno di berne ancora.
Al rientro abbiamo anche compreso meglio il significato del voandalana (regalo del viaggio) che sempre bisognerebbe portare da un viaggio. È stato Bedel, il responsabile dei dipendenti, a spiegarlo durante uno dei suoi kabary (discorso) che tanto ama fare dopo che avevamo consegnato il nostro piccolo dono portato dall’Italia. Parafrasando un po’, perché in malgascio sarebbe troppo complicato da ripetere: “l’importante non è il regalo in sé, ma grazie a questo piccolo gesto si fa capire alle persone che nel tempo in cui si è stati lontani le hai pensate, portandole nel cuore”. Visto in quest’ottica ci piace molto di più il voandalana: non un gesto dovuto, come se fosse una tassa da pagare dopo il viaggio, ma qualcosa di genuino che nasce dal cuore.
Oggi vorremmo presentarvi meglio i quattro ospiti che vivono con noi in Casa della Carità, ospiti quasi totalmente autonomi, liberi di andare in giro per l’ospedale e il villaggio ma che dormono in due stanze vicino alla casa delle suore. Aiutano nel cucinare e nel pulire per come possono e fanno parte della comunità di casa. Ci teniamo a presentarveli perché rientrando ci siamo resi conto di quanto siano importanti per noi. Si chiamano Oben, Hanta con la figlia Marie Goretti e da poco Nirina. Sono i “piccoli di casa” e per questo ci insegnano molto nel quotidiano, basta guardarli interagire tra di loro sempre con il sorriso e con una semplicità che è disarmante. È stata Marcia, la cuoca che lavora in casa delle suore (e migliore amica della Toky), a insegnarci chi sono loro per noi: zanak’Andriamanitra (figli di Dio), definizione che magari può sembrare banale una volta sentita, ma non capita spesso di riferirsi agli altri chiamandoli così. Per lei invece è scontato che loro, come tutti, sono figli di uno stesso Padre buono e quindi nostri fratelli e sorelle.
Andando con ordine la prima con la quale abbiamo iniziato a relazionarci era stata Hanta, ospite da circa cinque anni, già mamma di Nirina (non l’ospite citata sopra, ma sua figlia) che non vive più con lei e di Marie Goretti, nata pochi mesi fa. Dorme in una piccola stanza con la figlia nel suo stesso letto e da un mese anche con Nirina, ultima arrivata nella comunità. Certo qui sono abituati da sempre a dormire in stanza con altri, ma la naturalezza con la quale ha accolto la nuova coinquilina ci fa riflettere. La fatica che facciamo anche solo a immaginare di accogliere un estraneo in casa nostra o nella nostra comunità parrocchiale spesso ci fa desistere ancora prima di provare. Invece Hanta e Nirina si sono scoperte sorelle e si aiutano in tutto. Certo sappiamo che il paragone è un po’ forzato, ma forse dovremmo fidarci di più di chi fa proposte coraggiose e provare a realizzarle, come alcuni per fortuna già fanno.
Nirina già di tanto in tanto passava in casa per aiutare e ricevere in cambio un po’ di vary amin’ny laoka (riso e condimento) e le suore alla fine le hanno proposto di fermarsi in comunità. Ha sempre un bellissimo sorriso sul volto e ama farsi fotografare e ridere delle sue foto, soprattutto di quelle con la bocca aperta in cui si apre il vuoto di un dente caduto. È una lavoratrice instancabile, ma la cosa veramente preziosa è che ha portato allegria e leggerezza in comunità con le sue domande che fanno sorridere per la semplicità e l’innocenza: quando di nascosto mastica il paraky (tabacco) perché le è stato detto di non farlo o mentre gioca in giardino con la Toky. Anche lei ci ha dato un grande insegnamento sulla naturalezza del condividere. Pochi giorni fa aveva chiesto alla Terri un pettine per potersi fare le treccine e alla sera le è stato regalato. In quel momento però c’era anche Hanta, che giustamente voleva anche lei il suo pettine nuovo. A quel punto Nirina, semplicemente ha detto: “ity, ity ho antsika” (questo è per noi). Appena ricevuto il dono è stata subito pronta a condividerlo, perché per lei è normale così. Semplici gesti che ci ricordano il senso di partire in missione: lasciare che siano i piccoli a insegnarci, se stiamo con loro.
Per ultimo Oben: con noi non parla, vive in comunità da più tempo di tutti e va sempre in giro con la tazza in mano per farsi offrire il caffè in ospedale o in villaggio. Tutti i giorni a colazione, pranzo e cena lo salutiamo perché mangia davanti alla porta di casa il suo piatto di riso, e in un anno mai abbiamo ricevuto più di uno sguardo, mai una risposta. Poi improvvisamente un pomeriggio la Terri camminava con la Toky in braccio e lui si è avvicinato per scherzare con lei, farsi rincorrere dalla Terri, nascondere la testa sotto la maglia per non farsi vedere. Pochi giorni dopo mentre Manu apriva dei lici davanti a casa, Oben gli ha preso la mano e non la mollava più. Da allora quando lo vediamo passeggiare scherziamo con lui inseguendolo per la strada. Ancora mai una parola, ma l’emozione di aver iniziato una relazione con lui non si può scrivere: nella semplicità non per forza servono le parole.
Ecco alcuni dei nostri mpampianatra (maestri) che stiamo trovando qui ad Ampa, e ce ne sono tanti altri tra i dipendenti, le suore e gli abitanti del villaggio. La verità è che non sono maestri, ma fratelli maggiori, che letteralmente ci prendono per mano e ci accompagnano, e si prova a camminare e crescere insieme ciascuno per come è fatto.

Manu, Terri e Ludo-Toky