Il tema centrale di questa quarta domenica di quaresima è quello della luce. Luce nella nostra immaginazione è spesso associata a calore, vita, allegria, possibilità di percepire dove si sta camminando… al contrario del buio, che produce ansia e una sensazione di paura e insicurezza e che paralizza. Per questo la luce è il simbolo centrale delle grandi feste di Gesù: possiamo ricordare le letture del profeta Isaia nella notte di Natale o della Epifania (Is.61,1ss; 60,1ss) o la liturgia della luce che caratterizza la prima parte della veglia pasquale.
Gesù nel testo di oggi dà la vista a un cieco nato. Questa guarigione non mostra solo l’atteggiamento del nazzareno che vede una persona che ha bisogno, sente compassione, si avvicina e lo aiuta, come nei miracoli descritti in Matteo, Marco e Luca. Questa cura è una delle sette opere straordinarie che nel quarto Vangelo il Signore compie e che sono chiamate “segni”: indicano, cioè, qualcosa che và oltre, e manifesta chi è veramente il Cristo. Come il fumo è un segnale di qualcosa che brucia, così qui con la cura del cieco nato Gesù si rivela come “luce del mondo”.
Ma se la caratteristica della luce è quella di illuminare, scoprire, rivelare, permettere di vedere quello che prima nella oscurità rimaneva nascosto… la presenza di Gesù come luce del mondo si trasforma, di conseguenza, in un giudizio che mette a nudo la realtà vera che si nasconde nel cuore di tutti. Per questo davanti al cieco nato che comincia a vedere, l’evangelista ci mostra la reazione degli astanti.
Prima di tutto ci sono i vicini del cieco, quelli che sono abituati a incontrarlo a mendicare tutti i giorni: sono persone che conoscono il malcapitato, lo hanno forse aiutato più volte, ma davanti al “segno” della guarigione rimangono meravigliati, senza, però, offerrarne il significato. Il guarito diventa un problema di cui bisogna disfarsi il più velocemente possibile; per questo si affrettano a portarlo ai farisei perché ci pensino loro. Questi amici sono persone che, incontrando un oggetto che brilla, invece di aprirlo e rallegrarsi della sua luce se ne disfano portandolo alle autorità e poi se ne vanno non pensandoci più. Non sono abituati a porsi domande, a cercare, a tentare di capire: seguiranno Gesù fino a quando ci sarà da guadagnare, da ricevere, ma saranno i primi a lasciarlo quando comincerà a chiedere loro cose troppo onerose.
Dopo di essi il testo ci presenta i farisei, le guide spirituali del popolo di Israele. Si considerano dei separati dal popolo, dei privilegiati; ritengono che la giustizia e la santità consistano nell’osservanza scrupolosa della legge mosaica e della tradizione. Ed essi sono gli esperti, i cultori della legge; giudicano chi ne sta dentro e chi ne sta fuori. Gesù per loro è “certamente” un peccatore perché opera prodigi di sabato e quindi infrange la volontà di Dio espressa nei dieci comandamenti.
Sono persone che credono di conoscere Dio, di seguirlo fedelmente, di essere i “giusti” davanti a lui e di avere il compito di mostrare il suo cammino agli altri… per questo non stanno disposti a cambiare. Davanti a un Gesù che viene come “vino nuovo” che deve essere accolto in “odri nuovi” non accettano di mettersi in gioco e finiscono per rompersi e perdere tutto (Mc.2,21s).
Non riescono a intendere che, agli occhi di Dio, la necessità delle persone può relativizzare anche i comandamenti più importanti. Con questa rigidezza e con la certezza di essere nella verità, neppure i prodigi maggiori compiuti dal Signore produranno in essi qualche dubbio. Piuttosto che convertirsi e accogliere la luce scacceranno dalla sinagoga il guarito e uccideranno Gesù.
Se è vero che non esiste solo la cecità degli occhi, ma anche quella interiore del cuore e della mente, allora questi Farisei che non vogliono vedere al di là della legge, credono di non aver bisogno di conversione e non sanno accogliere la luce trasformatrice di Cristo, sono essi stessi i ciechi maggiori: sono portatori, senza saperlo di una cecità assai più grave di quella del cieco nato. Quest’ultimo che fin dalla nascita si affida alla bontà ed alla compassione altrui per sopravvivere, che si sente vulnerabile e debole ed è emarginato, non solo dalla sua infermità, ma anche dalla legge, è terreno fertile per le straordinarie opere del Signore. I Farisei, invece sono guide cieche che credono di vederci bene e di essere in grado di guidare altri ciechi (Mt.15,14): per questo il loro peccato è destinato a rimanere.
A questo punto nel nostro testo entrano in scena i genitori del cieco nato, chiamati dai farisei a spegare ciò che è accaduto al loro figlio. La presentazione è quasi grottesca: conoscono molto bene il beneficio che il figlio ha ottenuto, ma non vogliono compromettersi per paura delle conseguenze, per paura di essere espulsi dalla sinagoga. Si lavano le mani, vedono la luce, ma finiscono per chiudere gli occhi e volgere il loro sguardo da un’altra parte: non sono disposti a richiare l’incontro con la luce.
Accanto a tutti questi che si chiudono spicca la figura del cieco nato che è l’unico che davanti a quello che gli è successo è disposto a porsi domande e cercare di capire e cominciare un cammino di ricerca, costi quello che costi.
All’inizio dopo la cura, pur vedendoci bene fisicamente è ancora lontano dal percepire chi è Gesù: per lui chi lo ha guarito è una persona umana come tutti di cui non conosce “dove egli stia”: espressione che nel vangelo di Giovanni indica non la provenienza, ma la realtà di chi lo ha curato.
Non per questo, però, l’ex cieco desiste: comincia a fare domande, a investigare e alla spiegazione che riceve dai Farisei che considerano Gesù come peccatore, ribatte che colui che lo ha guarito non può essere lontano da Dio perché nessuno senza l’aiuto dall’alto può fare tali prodigi. Non ha paura che tutto questo lo porti a mettere in dubbio dogmi consolidati, con il pericolo di essere scomunicato dalle autorità religiose di Israele. È più importante la ricerca della verità che le conseguenze che questa possa produrre.
E in questo cammino l’ex cieco comuncia a intuire sempre più chiaramente chi è la persona che lo ha curato: prima arriva ad affermare che Gesù è un profeta, poi che viene da Dio, infine a credere che la persona che gli sta davanti sia il “figlio dell’uomo” descritto in Daniele, che è venuto per giudicare e a cui Dio ha dato gloria e potere (Dn.7,9s). Soprattutto questa ricerca lo porta ad incontrarsi personalmente con Gesù e manifestare la sua fede inginocchiandosi davanti la lui.
L’ex cieco diventa, così la figura di tutti quelli che come i magi vedono la stella e non hanno paura di cominciare un cammino per essere illuminati dalla sua luce.
San Paolo nella seconda lettura dice che: “un tempo eravamo tenebre ma ora siamo luce del Signore”. Con il battesimo abbiamo ricevuro la possibilità di accogliere la luce di Gesù che ci trasforma in persone nuove e ci dà la capacità di brillare. Ma questo non è automatico: possiamo correre il pericolo di chiuderci a questa luce, o per orgoglio come i Fariseri, o per indifferenza come gli amici del cieco, o per paura delle conseguenze come i suoi genitori.
Accogliere la luce, brillare è vivere come dice San Paolo nella seconda lettura, come “figli della luce”: realizzare, cioè, il suo frutto che consiste nella unità, nell’amore, nella giustizia e nella verità, senza spaventarci delle conseguenze. Non possiamo fingere davanti a Dio, perché come con Davide Dio conosce il nostro cuore e davanti alla sua luce non possiamo nasconderci. Se avremo il coraggio di aprire la porta del nostro cuore a questa luce stiamo certi che scorgeremo anche il più piccolo granello di sporcizia e di peccato nella nostra vita, ma sarà questo il primo passo per convertirci, fare pulizia in noi sterssi, cambiare, rinunciando a tante piccole o grandi cose che ci piacciono ma non hanno nulla a vedere con Cristo.
Questa è l’unica maniera per cominciare a vedere la realtà con gli occhi e il cuore di Gesù e non essere come i farisei “guide cieche che non sanno di esserlo e tentano di guidare altri ciechi”. Quello che accadrà loro, come afferma Gesù, lo sappiamo tutti!