Un frutto che rimane
Pochi giorni fa mi ha scritto un amico chiedendomi una parola di speranza. Ho cercato questa parola nel Vangelo: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16).
Mi domando: qual è il frutto che rimane? Credo che sia l’amore, l’amore che siamo riusciti a comunicare, e anche l’amore che abbiamo saputo accogliere. Nella mia vita missionaria, almeno qualche volta, ho comprovato che, con l’aiuto di Dio, sono riuscito a dare un amore che, dopo tanti anni, rimane.
In questa quarantena cresce il desiderio di uscire dalla propria solitudine, ed è una staordinaria opportunitá per contattare ed essere contattato da tante persone cui voglio bene.
Nel silenzio della preghiera Dio mi aiuta e ci aiuta ad assaporare la Sua misericordia, a ricordare e a contemplare i frutti che Lui ci ha aiutato a portare, frutti che rimangono.
E questo frutto – saper dare e saper accogliere amore – non viene meno con il coronavirus, ma anzi puó essere rafforzato e consolidato.
Ravvivare i contatti
Ieri, nella mia riflessione personale, pensavo alle tante persone conosciute e a come cambiano spesso i compagni di viaggio di un missionario. Chi si sposa condivide la sua quotidianitá – almeno per tanti anni – con il coniuge e i figli. Per noi missionari è diverso: cambiamo paese e automaticamente cambiano le persone che ci accompagnano. I confratelli e gli amici che riempiono la mia vita quotidiana oggi (in Colombia) non sono quelli che la riempivano 4-5 anni fa (in Italia). E neanche quelli che la riempivano 5 anni prima (in Ecuador).
Ecco perché la comunitá interiore – il sentirsi legati ad amici magari fisicamente lontani ma sempre presenti nel cuore – è particolarmente importante per un missionario. Si tratta di una comunitá in cui, ovviamente, non mancano fragilitá e ferite. La quarantena del coronavirus mi spinge a custodire e valorizzare ancora di piú questa comunitá, che è uno dei piú bei doni che ho ricevuto da Dio, e a lottare per mantenere e ravvivare i contatti.
Assaporare le parole
Durante la preghiera, leggendo i salmi, mi ricordo di padre Felice, che conobbi in Italia qualche anno fa. Soffre di maculopatia, una malattia degli occhi: ogni giorno ci vede meno, nonostante la lampadina sempre accesa sul suo breviario.
Stiamo recitando i vespri, conduce lui: inizia una frase del salmo e poi si arresta cinque, dieci, venti secondi, cercando di visualizzare la parola successiva. In questi secondi di silenzio io pensavo: ‘Chissá quale parola verrà dopo!’. Quel silenzio crea in me uno spirito di concentrata attesa, mentre cerco di prepararmi ad accogliere degnamente la parola che verrà.
Tra una parola e l’altra una pausa di almeno dieci secondi: “Il Signore… è vicino… a chi ha il cuore ferito”. E ancora: “Ho cercato… il Signore… e mi ha liberato… da ogni paura”. Questo leggere ad intermittenza mi obbliga ad assaporare ogni parola. E mi rendo conto che è con questo atteggiamento che dovrei vivere la vita quotidiana: rimanere in attesa della parola del fratello o della sorella, assaporandola profondamente.
E mentre cerca di leggere la parola successiva, padre Felice fa un gesto quasi di disperazione, come se dicesse: ‘Non ce la faccio!’. E il confratello lì vicino gli sussurra. ‘Avanti, avanti! Mica possiamo far notte! Salta!’. In altri termini: ‘se non capisci quella parola, saltala, non importa’.
E’ quello che succede, a volte, nelle nostre relazioni interpersonali: non c’è tempo per ascoltare la parola del fratello, per aspettare che riesca ad esprimere bene tutto ció che vuole dirci, non abbiamo tempo da perdere, e allora si salta, si passa sopra su quello che voleva dirmi il mio amico: quella parola rimarrà per sempre inespressa e inascoltata.
Attraverso padre Felice Dio mi stava dicendo: ‘Assaporate la mia parola, non datela per scontata, rimanete in un atteggiamento di attesa, di ascolto e di stupore!’.
Forse questa quarantena forzata è un’opportunitá per tornare ad ascoltare e assaporare le parole, le parole di Dio, le parole dei familiari e degli amici.
Sentirsi connessi per creare un mondo nuovo
Il Covid 19 è arrivato anche a Bogotá. Voglio condividere con voi una riflessione di William Ospina, poeta colombiano, che a proposito di questa emergenza afferma: “Quando si é presentata l’ultima grande pandemia, la ‘spagnola’, nel 1918, non l’abbiamo sperimentata in questo modo. Era un fatto planetario, ma in ogni parte ciascuno la viveva come un fatto locale. Adesso, invece, per la prima volta, sentiamo che in tutto il pianeta sta succedendo la stessa cosa. Questa societá ultrainformata e ultraglobalizzata ci sta facendo condividere – come umanitá – la stessa incertezza, la stessa paura, la stessa fragilitá, ci sta facendo sentire e comportare come specie umana. Mai come adesso ci sentiamo interconnessi. Dopo tanti secoli in cui ci siamo vantati delle nostre conoscenze, abbiamo esaltato il nostro talento e adorato la nostra forza, arriva il momento in cui ci tocca prendere consapevolezza della nostra fragilitá e fare i conti con la la nostra paura”. Dunque il primo frutto di questa crisi potrebbe essere una solidarietá planetaria all’insegna della fragilitá. La forza, spesso, crea oppressione, timori, egoismi e sospetti, e ci rende rivali e nemici; la fragilitá, invece, ci affratella tutti. Siamo chiamati a costruire una nuova globalizzazione fondata sulla nostra comune vulnerabilitá.
“Questa minaccia di disastro scioglie una raffica di pazzia su tutto ció che finora consideravamo razionalmente consolidato, immette un raggio di Dio nella prosa del mondo. Se tutto ció che sembrava stabile viene sconvolto, significa che tutto puó cambiare, e non necessariamente in peggio. In questa pausa di pazienza e di paura acquistano un nuovo senso il delirio di don Chisciotte, gli insegnamenti di Gesú, le domande di Socrate e le visioni delle mille e una notte”
Un secondo frutto di questa crisi, dunque, è che questa ‘tempesta’ puó mettere in discussione l’assurda ‘razionalitá’ di ‘dogmi’ politici ed economici che in questi ultimi 30 anni sembravano inconfutabili e che ci hanno portato a disuguagliaze abissali e crudeli mai viste prima nella storia dell’umanitá. E cosí, dopo tanto tempo di dittatura neoliberale, i tagli selvaggi alla sanitá e a ad altri servizi pubblici potranno finalmente essere contestati e combattuti.
“In conclusione”, afferma Ospina, “se c’è un mondo che sta crollando, forse c’è un mondo nuovo che ci sta sfidando”. Insomma, questa ‘tempesta’ puó ridare diritto di cittadinanza alle parole e ai sogni di Gesú: sogni di fratellanza, di compassione universale e di giustizia. Sogni che erano stati fatti sparire dal cielo inquinato della notte neoliberale, ma che forse adesso potranno tornare a fare capolino in un nuovo cielo liberato dalla contaminazione della ‘globalizzazione dell’indifferenza’.
Con i piú poveri e abbandonati
Come sempre, anche in questa crisi preghiamo Dio che il nostro cuore non dimentichi i piú poveri e i piú vulnerabili: gli anziani, gli ammalati, i carcerati, i migranti, i senza-tetto.
La diffusione del Covid 19 in America Latina presenta problematiche ancora piú pesanti che in Europa. Come ha detto recentemente un giovane ecuadoriano, non è la stessa cosa rimanere a casa in un paese con un sistema sociale e assistenziale relativamente forte e rimanerci in un paese dove predomina il lavoro informale e lo sfruttamento. In Colombia e in Ecuador per tanta gente non lavorare un giorno significa che la tua famiglia quel giorno non avrá niente da mangiare.
Che Gesú ci aiuti a creare nuove forme di solidarietá e ci indichi nuove piste per una societá giusta e fraterna!
fratel Alberto Degan