La fraternità, per essere tale, ha bisogno di farsi carne. Per approfondire il senso di Fratelli Tutti, l’ultima enciclica di papa Francesco, Centro Missionario e Bottega di Nazareth si sono affidate a una testimonianza concreta, quella di padre Gigi Maccalli, missionario italiano per due anni nelle mani di un gruppo di terroristi. La serata si è svolta on-line, in una diretta YouTube e su Zoom, dove i giovani dei due gruppi hanno potuto portare le loro domande al missionario.
«La mia storia – ha spiegato padre Maccalli – parte molto prima del mio rapimento visto che sono in Africa da 23 anni. Sono stato dieci anni in Costa d’Avorio, ho avuto una parentesi di animazione missionaria, poi nel 2007 sono ripartito per il Niger, paese tra i più abbandonati dell’Africa. Ero in una zona rurale dove non c’è asfalto né corrente elettrica, quando sono arrivato non c’era nemmeno il telefono». L’opera missionaria di Maccalli è sempre stata caratterizzata da quella che lui chiama «pastorale della stuoia»: «ho sempre coniugato Vangelo e promozione umana, ho visto nascere comunità cristiane, ho potuto battezzare ad ogni Pasqua dei gruppi di catecumeni, ma al tempo stesso sono stato attento e vicino alle problematiche della vita quotidiana. La nostra presenza in un paese che ha il 98% di musulmani non è tanto di annuncio pubblico ma è un condividere l’amicizia, sedersi sulla stuoia e condividere». Il Vangelo si è fatto carne anche attraverso opere concrete. «Lì le donne partono anche alle 4 del mattino per andare a cercare l’acqua. Una delle prime cose che ho potuto realizzare è stata portare una pompa a Bomuanga, così dare acqua pulita nei villaggi. Poi ti presentano bambini ammalati o malnutriti, ricordo la morte di una mamma nel dare alla luce due gemelline che oggi sono alle scuole elementari. È stato l’episodio che ci ha ispirato per la creazione di un centro per accogliere bimbi malnutriti e orfani dove nel 2017-18 sono stati accolti più di cento bambini. Così come un deposito farmacia per aiutare la gente ad avere medicine sul posto. Poi la scuola: sono convinto che la scuola è il passaggio obbligato per dare un futuro alle giovani generazioni. Abbiamo introdotto l’aratro con la trazione dell’asino per migliorare il loro lavoro nei campi, o il miglio rapido che non dipende dalle piogge. Cose semplici che dicono come mettiamo il Vangelo in azione».
Quell’importante lavoro è stato però interrotto la sera del 17 settembre 2018, quando un gruppo di terroristi ha fatto irruzione nella vita di padre Maccalli. Ho sentito dei rumori, pensavo di trovare persone in cerca di medicinali e mi sono trovato di fronte dei fucili». Il gruppo ha così bendato il missionario e lo ha portato via, dando inizio a un lunghissimo viaggio fatto di 17 giorni di moto, a cui sono seguiti 22 giorni incatenato ad un albero. Poi un altro trasferimento e l’arrivo nel deserto dove Maccalli ha trascorso molti mesi in solitudine. «Come missionario ero abituato a dormire per terra, lavarmi con un secchio, bere e mangiare quello che c’è. Ma è stata lunga la monotonia dei giorni sempre uguali. Ci sono stati momenti intensi di preghiera e di lacrime. Non avevo Bibbia e non avevo nulla, recitavo spezzoni di Salmi a memoria. Non è che fossi disperato ma quando sei nel dolore non hai parole, o gridi o piangi. Era questo grido che saliva come preghiera in questo grande silenzio del deserto». Nella difficoltà di quei mesi Padre Gigi dice di aver trovato però diversi doni. «Il primo è il grande silenzio che mi ha fatto andare in profondità, rileggere la mia vita e la mia missione da un’altra ottica».
Un altro dono intuito «è la comunione con le tante vittime innocenti, una comunione che ti porta a capire che l’essenziale è altrove, non è nella violenza e nella guerra. Ho ascoltato anche i loro perché e le loro richieste, un misto di indipendenza politica, reazione ad abusi che hanno subito ma non è l’arma che può risolvere le cose. L’essenziale è lo “shalom”, il perdono, la fratellanza. Anche in questo tempo non ho mai avuto sentimenti di odio e di rancore. Molti di loro sono analfabeti, giovanissimi dai 13 ai 18 anni, il più vecchio aveva 30 anni. Hanno sempre in mano video di propaganda ma non sanno quello che fanno». Per arrivare alla via della pace è necessario passare dalla croce. «Io quella croce l’ho portata ed è molto ruvida, ma è la croce che può spezzare l’odio. Non può nascere la pace senza il perdono: io l’ho offerto a loro, sono sereno in pace e più motivato di prima a essere testimone e messaggero di pace. Inizio a intravvedere adesso come forse sta nascendo una nuova vocazione: quella di liberato per liberare. C’è bisogno di liberare il nostro mondo da tanta violenza, a partire dalla parola: disarmare la parola che tanto ferisce. La parola infuoca la guerra come le relazioni familiari e la politica. Abbiamo bisogno di parole disarmate, di ascolto, di pace, di attenzione all’altro. Liberare il mondo da tanta violenza».
Federico Covili
pubblicato su Nostro Tempo del 20 dicembre 2020
ecco il video della serata