Siamo a Tana. Abbiamo salutato tutti ad Ampa e siamo risaliti qui, per passare la festa nazionale in capitale nell’attesa del volo di rientro tra pochi giorni. Sinceramente mancano un po’ le parole per raccontare quello che stiamo provando, per descrivere com’è salutare persone con cui hai passato due anni bellissimi e che non sai se rivedrai, non nell’immediato almeno.
Nella vivace Casa della Carità di Tongarivo in mezzo a tante suore e tanti ospiti che aspettavano da tempo la nostra salita, in particolare della piccola Toky che avevano visto l’ultima volta ad ottobre, ci sentiamo sempre a casa. È curioso come nell’agitata quotidianità che si vive qui riusciamo sempre in fretta a sentirci parte di quei piccoli gesti che scandiscono i ritmi della giornata e della settimana.
Come il lunedì di adorazione continua. Di quella semplice ora di preghiera davanti al Santissimo ne avevamo bisogno per prenderci un po’ di tempo per noi, nel silenzio di questa bella cappella, per scambiare ancora due parole con Dio che qui sembra più vicino che mai e affidargli tutte le nostre emozioni. La testa vaga un po’, così per ritrovare la concentrazione ci affidiamo alle Scritture, di solito quelle della domenica, ma oggi ripensiamo al vangelo che Manu ha scelto per il nostro ultimo momento di condivisione con Debora giù ad Ampasimanjeva: Mt 19, 16-30.
C’è questo tale che vuole la vita eterna e chiede come ottenerla, pur sapendo che molti degli insegnamenti di Gesù già li segue. Sa però che gli manca ancora qualcosa. Quel piccolo – grande – passo che gli permetterà di seguire in eterno Dio: lasciare tutto e darlo ai poveri. Ci colpisce come ancora una volta siamo noi stessi a privarci del lusso della vita eterna perché attaccati al nostro “tutto-troppo”. Noi crediamo che un po’ di vita eterna in Madagascar l’abbiamo vissuta, nella semplicità delle relazioni con tutti e immersi nella bellezza del creato. La promessa che Gesù fa alla fine del Vangelo la sentiamo molto vera e vicina: siamo grati di aver lasciato qualcosa (non tutto, non ne siamo ancora capaci) per ricevere molto di più.
Prima di partire in ospedale ci hanno preparato un veloma, un momento di saluto tipico della tradizione malgascia in cui un rappresentante della comunità che ti accoglie fa un kabary (discorso) per salutarti e spesso consegnare un piccolo dono. Ovviamente c’è bisogno anche di una risposta di chi parte, e noi ci eravamo preparati già qualche spunto per essere certi di non dimenticare nessuno nei ringraziamenti. Ci ha colpito che Bedel, soprannominato uomo-kabary per quanto gli piace parlare, ci abbia detto di lasciare i lamba (panni) sporchi all’uscita dell’FMA e di portare con noi in Italia solo i ricordi belli di questi due anni. In realtà le poche difficoltà che abbiamo avuto sono già state dimenticate, mentre si risale rimane impresso solo il bello, che per noi sta molto nei tanti volti dei colleghi, amici, masera delle comunità che ci hanno accolto.
In questi ultimi giorni siamo anche stati sommersi dai gesti semplici di tutte queste persone, che ci hanno tenuto a salutarci ognuna a proprio modo: c’è stato chi ci ha invitato a casa per condividere una merenda, chi è passato in camera nostra per regalarci qualcosa di tipico e chi semplicemente con poche parole e gli occhi lucidi ci ha espresso il dispiacere che gli dava la nostra partenza. E gli occhi lucidi li avevamo sempre anche noi.
Durante la nostra risposta nel kabary ci abbiamo tenuto a sottolineare che noi partivamo come missionari, quindi mandati da una diocesi ad un’altra per uno scambio tra chiese sorelle. Forse non siamo stati dei gran missionari, abbiamo semplicemente provato a vivere in Madagascar senza la pretesa di insegnare niente o provare a portare chissà quale cambiamento. Ma per nostra fortuna abbiamo imparato tantissimo sul Vangelo vivendo fianco a fianco con questo popolo: cioè che il Regno dei cieli è anche qui sulla terra e che vivere da fratelli e sorelle con tutti è veramente possibile. Abbiamo capito l’importanza di questi due anni quando i malgasci stessi ci hanno detto che siamo akamana, amici. Abbiamo capito che ne è valsa la pena e che si è creato un rapporto veramente profondo con alcune persone.
Il desiderio di partire è nato vedendo la gioia negli occhi e nei cuori dei tanti missionari che abbiamo conosciuto negli anni. Abbiamo visto in loro la nostalgia delle terre dove hanno vissuto, il disagio di sentirsi fuori posto una volta rientrati nella terra che come direbbero i malgasci è “la terra degli antenati”. In pochi raccontano la fatica del salutare tutte queste persone che sono state famiglia e casa. Forse perché ci si dimentica lasciando spazio a tutto quello di bello che si è vissuto.
Avremo bisogno di un po’ di tempo una volta rientrati per tornare alla quotidianità italiana, molto diversa dalla nostra qui. Ci servirà tempo soprattutto per far sedimentare in noi questi due anni appena trascorsi, ma sicuramente non potremo mai dimenticarli, come in molti ci raccomandano.
Tutto questo è stato ed è per noi la missione, il nostro stare qui, qualcosa di non nostro, che non abbiamo creato noi e che per Grazie di Dio ci è stata donata e custodiremo sempre, sperando un giorno di trasmetterla, attraverso i nostri gesti, anche ai nostri figli.
Veloma, mandrapihoana
Manu, Terri, Toky