Una catena che libera – L’incontro con p. Gigi Maccalli

Un anello di catena, un rosario di tela, un deserto di silenzio. Sono questi i tre regali, come dice lui stesso, con cui padre Gigi Maccalli ci racconta l’esperienza del suo rapimento. Un’esperienza difficile e dolorosa, ma inaspettatamente visitata. Pierluigi Maccalli, com’è noto, è stato rapito nell’autunno del 2018 da un gruppo jihadista, mentre si trovava nella sua comunità a Bomoanga, in Niger. Dopo due anni nelle mani dei rapitori, è stato infine liberato. Due anni lunghi, nel deserto. Due anni che, con uno stile semplice e profondo, ha condiviso con noi lunedì scorso.

Un anello di catena. Non un anello qualsiasi, ma l’unico anello delle catena non completamente saldato, quello da cui si spera di rompere la catena intera, quando la notte il fastidio impedisce di dormire. Questo è il primo dono che padre Gigi si porta dietro, per ridonarlo a noi nelle sue parole. L’anello di questa catena ha significato la comunione con tutte le vittime innocenti, quelle del Niger in particolare. Essere legato, privato della libertà, ha reso il missionario simile in tutto al popolo a cui è inviato. E oggi, quando quella libertà tanto desiderata è ritrovata, non si può dimenticare quanti in quelle catene sono ancora avvinti.

Un rosario di tela, un pezzo di tessuto strappato con cui padre Gigi ha fatto dieci nodi, prima di legarlo al polso. Possedere questo rosario di fortuna – ci racconta – ha significato avere la possibilità di rimanere in comunione con le comunità di Bomoanga come con quelle italiane. Quando la comunicazione è impedita, rimane ancora la facoltà di pregare assieme a chi è lontano, per partecipare alla vita della Chiesa. E così è stato. Rientrato in Italia, Maccalli si è commosso nello scoprire che nel suo piccolo paese vicino Crema, la comunità cristiana per due anni e qualche settimana ha pregato il rosario, tutte le sere, ininterrottamente, per la sua liberazione. Il deserto, in questo senso, ha insegnato l’essenziale: scoprire che siamo fatti per la comunione, per la relazione, e scoprirlo al modo doloroso dell’assenza. Ecco il secondo regalo di questi due anni.

Infine, un deserto di silenzio. Più volte – ci confida – padre Gigi si è trovato a chiedere a Dio una parola, un segno, un sogno rivelatore. Dall’alto, però, ha ricevuto solo silenzio. Diversamente da quanto ci aspetteremmo, però, pian piano è cresciuta in lui la consapevolezza che, forse, proprio questo silenzio è il seno del Padre, quello in cui Gesù si ritirava a pregare, come raccontano i vangeli. E per spiegare questa paradossale esperienza, usa l’immagine della gravidanza. «L’esempio più bello me l’ha dato mia nipote, che ha partorito un mese e mezzo fa e mi diceva: “Sento che nel mio grembo tutto si ritira per fare spazio a qualcosa che sta nascendo dentro di me”. Ecco, Dio è grembo di silenzio. I poeti usano parole che ci sorprendono, ma che sono generate – io credo – in un grembo di silenzio». È lo stile di Dio: ritirarsi, come il settimo giorno di creazione, offrirsi come spazio vuoto, accogliente, per far nascere, infine, la Parola. L’immagine si pianta nella mia mente, distratta da una vita sommersa di impegni, di rumori, di mille parole. Un pezzetto di deserto è entrato in padre Gigi, e non ne uscirà, perché custode di un segreto decisivo per la nostra vita.

E così un anello di ferro, un rosario improvvisato di tela e un deserto silenzioso si sono trasformati, sotto i nostri occhi: una catena di condivisone con gli ultimi, una preghiera di comunione con tutti, un silenzio che è grembo di vita. Anche un’esperienza dolorosa e ingiusta, alla fine, ha insegnato a padre Gigi qualcosa di nuovo su Dio e su di sé. E forse, grazie alle sue parole, lo ha insegnato anche in noi.

Pietro Barani
da Nostro Tempo del 12 dicembre 2021

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